Dal cinema al teatro
RICORARE E’ UN DONO, E UNA SVENTURA
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“Una pura formalità” di Glauco Mauri (dall’omonimo film di Giuseppe Tornatore). Al Teatro Biondo di Palermo
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Chiunque abbia amato Una pura formalità, splendido film del ’94 di un Giuseppe Tornatore lontanissimo da logiche ruffiane e in stato di pura grazia creativa, dovrebbe concedersi la visione della rigorosa e fedelissima versione teatrale effettuata da Glauco Mauri, in scena al Biondo. E dovrebbe farlo un po’ per non mancare all’appuntamento con uno dei più longevi e felici sodalizi artistici degli ultimi decenni – quello tra Glauco Mauri e Roberto Sturno – e un po’ per cogliere le sottili differenze espressive che il linguaggio del cinema e quello del teatro offrono ai loro appassionati.
L’impianto del film di Tornatore, quasi tutto girato in interni con dialoghi fitti e incalzanti, è decisamente teatrale, quindi dev’essere stato quasi spontaneo e naturale per Mauri trasporlo per il palcoscenico, ma laddove il film incendiava lo schermo -nelle lancinanti riprese in primissimo piano dei due magnifici interpreti, Gérard Depardieu e Roman Polanski- sul palcoscenico sono l’incanto della storia, bellissima e sospesa in un’atmosfera cruda e surreale insieme, e l’amo costantemente lanciato della parola e delle sue tante seduzioni ad imprigionare l’attenzione.
La pioggia, come elemento simbolico, primordiale e catartico, funge sin dall’inizio da colonna sonora per una vicenda kafkiana dai risvolti inquietanti, vicenda che accoglie suggestioni dostojeskiane e freudiane al fine di effettuare un’indagine nell’Io e nelle sue tante volontarie o inconsce rimozioni e di recuperare la memoria come strumento di conoscenza. La memoria può far male, se restituisce alla coscienza azioni indegne o se fa riemergere uno scomodo passato che è meglio occultare dietro una nuova intrigante identità, ma la memoria deve soccorrere per restituire senso alle azioni compiute, per comprendere quella parte oscura che ogni uomo vorrebbe tenere per sempre celata perfino a se stesso.
Glauco Mauri e Roberto Sturno sono il Commissario e lo scrittore Onoff, l’uno indaga su un caso di omicidio e trattiene l’uomo che corre nel bosco per una pura formalità, l’altro fugge ma non si sa da cosa o da chi, si perde nell’oscurità della notte come novello Dante nella selva oscura, vaga come un anima in pena e non è casuale questa sua condizione, perché appunto di anime parliamo e non più di uomini, di sagome che non sanno più vivere ma che non sanno ancora di essere morte, di quelli che sono ad un tempo assassini e assassinati.
Cosa attraversa la mente di un suicida? Cosa lo aspetta? Non può esserci risposta naturalmente, ma il Commissario con i suoi uomini (Giuseppe Nitti, Paolo Benvenuto Vezzoso, Amedeo D’Amico, Marco Fiore) singolari chierichetti di un rito da officiare, deve condurre implacabilmente l’interrogatorio, deve costringere l’uomo a ricomporre frammenti sparsi e confusi della propria vita, quella di uno scrittore che ha edificato il proprio successo sull’inganno e che ha cercato invano una forma di redenzione.
Gli interpreti non inaspriscono i contrasti, già netti attraverso il gioco di luci e ombre, ma lavorano sulle sfumature e sui suggerimenti testuali, in ciò favoriti dal grigiore malinconico delle scene di Giuliano Spinelli che ricama sui dettagli – l’orologio senza lancette e le scritte sui muri, quasi tristi memoriali – perché da essi scaturisce l’insieme.
Mauri è solerte ed indulgente insieme, non molla l’interlocutore ma gli concede respiro, non gli permette di sfuggire al peso della memoria ma se ne fa tenero custode, è un pacato Virgilio che guida il suo protetto nell’inferno della responsabilità e vi fa luce; Sturno frena sull’arroganza dello scrittore famoso ma ne conserva l’aggressività, mostra le debolezze senza farsi scudo con la vanagloria, resiste avvilito ad un interrogatorio di cui non comprende il senso pur avvertendone la necessità, è confuso dapprima e infine sollevato e grato.
E c’è di più: il Commissario ammira Onoff, lo conosce a fondo perché ha letto tutto di lui, recita a memoria brani dei suoi libri. Per questo sa anche come torturarlo e come ferirlo, come costringerlo a tornare sui suoi passi per l’estrema assunzione di responsabilità. I due uomini sembrano antitetici eppure in fondo si assomigliano, entrambi puntano alla verità, cercandola ostinatamente e negandola risolutamente. Ma il delitto è ormai compiuto. A cosa serve sapere? Dove porta il recupero di volti incontrati, amati, abbandonati?
Il messaggio di Tornatore, che Mauri accoglie e condivide, riconduce alla memoria vissuta come dono e come sventura, come obbligo morale e come consapevolezza, in definitiva come valore. Oltrepassato il limen, il dopo resterà sempre un mistero, anzi il Mistero più grande dell’esistenza umana. Il lavoro si chiude, infatti, con un punto interrogativo che non chiude sulle certezze, ma apre su infinite possibilità.
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Una pura formalità di Glauco Mauri, versione teatrale dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore. Oltre a dirigerlo, Mauri interpreta lo spettacolo insieme a Roberto Sturno, Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Le scene sono di Giuliano Spinelli, i costumi di Irene Monti e le musiche di Germano Mazzocchetti.