“Professione: reporter” o della solitudine
4 marzo 1975, esce in Italia “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni, una delle massime espressioni della moderna cinematografia.
La vicenda del giornalista inglese David Locke (Jack Nicholson, mai più così grande) diventa paradigma assoluto dell’uomo contemporaneo prigioniero di una realtà più grande di lui. Giunto nell’Africa sahariana per realizzare un reportage, Locke, al rientro nel suo hotel immerso nel deserto, trova il suo occasionale amico di pernottamento, David Robertson, morto a causa di un infarto. Gli somiglia e pensa di scambiare la foto sulla carta d’identità di Robertson con la sua. Decide di “morire”, dunque, acquisendo un’altra identità. Al suicidio sostituisce un’ultima chance, quella di tentare di vivere un’altra vita. Perchè? Per il resto del film, Antonioni ci racconta di un uomo stanco di vivere, deluso dalla sua vita e da chi la abita, lontano da una realtà che egli vorrebbe vera e che giorno dopo giorno gli si presenta come una triste rappresentazione della falsità elevata a sistema (in primis, il suo lavoro di reporter, capace di alterare la “verità” attraverso la manipolazione dell’immagine).
L’incapacità di reggere un’esistenza senza più ragioni valide per essere vissuta, porterà Locke ad entrare nella vita di Robertson, che scopriremo venditore di armi ai rivoluzionari africani. Alla fine del suo ultimo vuoto peregrinare (da Londra a Monaco di Baviera fino a Barcellona ed Almeria), Locke-Robertson verrà ucciso dai controrivoluzionari. Come dire, la sua impossibilità di controllare la realtà lo ha portato ad essere sopraffatto dalla realtà stessa, che in ultimo ha deciso per lui. Della giovane studentessa che il reporter incontra e ama lungo questo suo viaggio verso la morte, una straordinaria Maria Schneider, non conosceremo mai il nome, simbolico segno di una incomunicabilità che Antonioni porta in questa opera “definitiva” ai livelli di analisi più assoluta.
Noia, stasi drammatica, senso dell’attesa, pause eloquenti, sono tutte le modalità che l’occhio antonioniano mette in campo per regalarci ineffabili sguardi sul vuoto incolmabile che circonda il nostro mondo presente. Le sbarre della finestra della stanza del piccolo albergo, ennesimo non luogo di una realtà ormai priva di identità, in un borgo di Almeria, in cui Locke, significativamente solo, sarà ucciso, silenziosamente, senza turbare il muto scorrere di una quotidianità oramai indifferente a tutto, segnano un limite metaforico verso l’esterno impossibile da abbattere, tranne che per la cinepresa del grande ferrarese, capace di incantarci con sette minuti finali di piano sequenza che mai avranno eguali nella storia del cinema.