Re Lear di un altro mondo. “Ran” il capolavoro di Kurosawa
Fin dalla prima inquadratura si sta col fiato sospeso. Colline e montagne verdeggianti a perdita d’occhio, alcuni cavalieri abbigliati in fastosi, esotici costumi scrutano vigili all’intorno un cielo basso percorso da nuvole incalzanti. Poi i titoli di testa. Ecco l’ideogramma rosso su fondo nero: alcuni segni precisi, quasi un’immagine magica. Significa Ran, ovvero tumulto, caos, sommossa, ed è il titolo, come ormai si sa del film girato nel 1985 da Akira Kurosawa. La tensione emotiva cresce parallelamente al succedersi delle immagini. Ora la cinepresa opera una prolungata, ampia panoramica. Si intravvedono scorci campestri apparentemente acquietati nella nebbiosa trasparenza del mattino. Poi l’obiettivo si inoltra subitaneo nel folto di un boschetto. Un enorme cinghiale in fuga cerca vanamente di sottrarsi ai cacciatori che non si vedono, ma si intuiscono sempre più vicini. È solo un momento, la scena dell’azione è ora centrata sull’accampamento dei cacciatori. Questi, composti e ieratici nei loro costumi, con i lambiccati copricapi, siedono gli uni di fronte agli altri in due file parallele. In fondo, vestito di un suntuoso abito bianco e oro, sta tra due file l’austero, canuto Hidetora Ikhimonji, potente signore di quelle fertili, ricche contrade e gran guerriero dal passato torbido, cruentissimo.
Pian piano ci si comincia a lasciare andare al fascino discreto del racconto, al proliferare misurato delle immagini. Il sovrastare imponente di quadri naturali insieme preziosi e selvaggi, le liturgiche movenze dei personaggi inducono immediatamente ad una strenua, appassionata attenzione. Hidetora, ancora sorridente e divertito per le facezie e i lazzi garbati dell’efebico giullare Kjoami, si appresta a rendere note le importanti decisioni prese in considerazione della sua età avanzata e nell’intento di meglio amministrare i suoi domini. Dunque, tra lo sconcerto e la sorpresa dei presenti – vassalli, famigli e guerrieri – annuncia che egli affida da ora in poi la potestà sulle sue terre, sui suoi averi ai tre figli: Taro, Jiro, Saburo. Quando, però, il più giovane e devoto tra costoro, appunto Saburo, dissente dalla decisione del padre e lo accusa persino di insensatezza senile per quello stesso gesto, Hidetora, preso da incontenibile furore, lo disereda, lo scaccia, confermando al contempo che i nuovi padroni saranno i restanti figli e, in particolare, il maggiore Taro verrà investito quale indiscusso capo del clan degli Ikhimonji.
L’ambientazione di questa tormentata vicenda è dislocata storicamente al tempo dei “principi belligeranti”, cioè nel XVI secolo, quando le più potenti, ambiziose famiglie giapponesi si facevano guerra aperta per il dominio assoluto del paese. Ma la stessa vicenda, benché vagamente ispirata al racconto della più tipica tradizione giapponese La prova delle tre frecce, risulta visibilmente improntata dal tragico, sanguinoso intrico dello shakespeariano Re Lear. Pur se Kurosawa si è preso, per l’occasione, diverse e, comunque, sempre geniali licenze.
Si direbbe, anzi, che Ran voglia quasi ripercorrere un sintomatico cammino delle scelleratezze e della stolidità umane giusto per ricordare, per ribadire quanto e come Kurosawa sia colmo di sdegno, di esecrazione per la violenza, la guerra. Tanto che il suo film non si sofferma nemmeno sulla generica, convenzionale perorazione pacifista, ma affida soprattutto agli scatenati orrori e furori della guerra la condanna senza appello della pazzia degli uomini. C’è, infatti, in Ran una prolungata sequenza ormai famosa che racconta lo scontro a morte tra Taro e Jiro e le loro potenti armate. Ebbene, proprio questo momento tragicissimo viene risolto da Kurosawa con un efficace espediente formale. Mentre infatti sullo schermo si incalzano, si incrociano, si confondono immagini e gesti da finimondo, tutta la scena si svolge, invece, in un silenzio rotto soltanto, di quando in quando, da qualche discreta intrusione musicale. E l’effetto di simile soluzione, oltre che inquietantemente spettacolare, diviene impressionante, acutamente angoscioso.
In Ran, peraltro, ci sono tante altre sorprendenti suggestioni. Mano a mano che il racconto procede, alternando blocchi narrativi ove il gusto, il talento per l’azione spettacolare si sposano alla ieraticità, alla ritualità dei gesti del décor suntuoso, alle riprese concitatissime, eppure impeccabili delle battaglie, del divampare di intrecciati drammi, si giunge presto al fulcro della stessa tragedia shakespeariana. La disgrazia irrimediabile e poi la follia del vecchio Hidetora, sbalestrato insieme al fedele, devoto giullare Kjomi, determinano quasi una bufera sempre più rovinosa nella quale sono via via trascinati i figli Taro e Jiro, i loro castelli, le mogli, i parenti, i soldati valorosi, tutti travolti in un disastro che non sembra avere mai fine.
Poi le vendette, i regolamenti di conti, le faide terribili tra singoli personaggi, tra interi clan disegnano attorno alla sempre più tragica, campeggiante follia di Hidetora, ormai raggelato in una maschera in cui si legge soltanto attonito orrore, un “gioco del massacro” infernale, inarrestabile. E qui, appunto, salgono di nuovo alla ribalta le presenze sanguinose della spietata Kaede, una Lady Macbeth di lucida perfidia vendicativa, del prodigo, sfortunato Saburo, dei ferocemente perseguitati Suè, ripudiata sposa e vittima incolpevole, e di Tusurumaru, accecato e ridotto ad un ammonitore relitto umano, brancolante sull’orlo dell’abisso che ha abbandonato ogni supersite fede nell’ineffabile Budda che l’aveva confortato fino allora nel suo buio esilio dal mondo.
Il racconto ha largo respiro, la fotografia prodigiosa di Takao Saito, Masaharu Ueda, gli interpreti generosissimi, l’inflessibile mano registica di Kurosawa convergono nell’univoco intento di fare di questo Ran un’opera incontestabilmente maggiore. Anzi, un capolavoro assoluto.