Trittico, le tre ‘t’ dello spettacolo calabrese – 2. Aroldo Tieri, un calabrese al centro della scena

Aroldo Tieri, un calabrese al centro della scena

Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice

E’ stato per anni il mio “sorvegliato speciale”. Poteva cambiare maschera quanto voleva, tanto ormai avevo imparato a riconoscerlo. Un tipino agile, scattante, nervoso, perennemente di corsa, come se stesse perdendo il treno, portato inguaribilmente a questionare in modo concitato con chicchessia e a sgranare gli occhi per lo sconcerto. Più tardi avrei scoperto che molti lo accostavano al comico hollywoodiano Mischa Auer, sebbene lui rivendicasse orgogliosamente un’affinità maggiore col grande attore francese Jules Berry. Un naso perfetto per un profilo antico, una fisionomia mediterranea ma non stereotipata, una voce robusta, grave, decisamente in contrasto con la figura esile. E poi, quell’aria signorile, distinta, d’altri tempi, come diremmo oggi, ma che in verità ai suoi tempi era comune ad una certa borghesia meridionale, anzi, direi addirittura familiare. E infatti, ogni qualvolta Aroldo Tieri appariva sul piccolo schermo, mia madre non poteva trattenersi dall’etichettarlo come “il coriglianese”, tradendo un compiaciuto legame con quell’attore di successo che, a suo dire, con suo padre e i suoi zii “si trattavano da parenti”. Non ero del tutto convinto: niente in quell’attore tradiva alcunché di calabrese. Sì d’accordo, la sua famiglia si era trasferita a Roma quando lui aveva solo tre anni e ogni cadenza era stata ripulita dalla dizione dell’attore. A differenza di un Tino Scotti o un Gino Bramieri che ti rimandavano subito a Milano o di un Gino Cervi e un Raffaele Pisu dietro cui intravedevi Bologna, per non dire di Govi e Genova e Turi Ferro e la Sicilia, quel “coriglianese”, per conto mio, poteva essere pure valdostano. Invece era tutto vero. Ne ebbi conferma due anni fa quando, alla Casa dei Teatri di Roma, in una mostra dedicata all’attore ancora in vita, mi imbattei in una foto che ritraeva un tipico gruppo di famiglia in un esterno: i Tieri, i Pisani e altri amici intimi a Corigliano nel 1927 (riprodotta pure nel ricco catalogo curato da Antonio Panzarella).

Eppure da bambino mi sembrava altamente improbabile che quella cittadina sullo Jonio, rimasta per me vagamente esotica poiché, come la maggior parte dei cosentini, i miei genitori propendevano per il più vicino e “fresco” Tirreno, avesse dato i natali a nature così diverse. Identificavo Corigliano col mio nonno materno, Giambattista Pisani, Giobatta per i suoi studenti del Liceo classico “B.Telesio” di Cosenza, scomodo maestro di antifascismo nel ventennio per intere generazioni, poi comunista dubbioso, ammiratore di Seneca e Leopardi, uomo corpulento dalla natura riflessiva, severa e amara, incline al disincanto. Non poteva essere più diverso dunque dall’esuberante, snello e ipercinetico Aroldo Tieri. Qualcosa non mi tornava e pertanto decisi in segreto di studiarlo a fondo. In quelle gloriose stagioni pionieristiche della televisione, Tieri era un protagonista di prima grandezza: poteva assumere le sembianze del torvo e sfregiato Squeers nello sceneggiato Nicola Nikleby per poi scherzarci su, come se niente fosse, col suo perseguitato, Antonio Cifariello, e con l’avversario, Arnoldo Foà, intonando insieme un’aria de La vedova allegra al Musichiere e “dando di matto” per le donne davanti a un divertito Mario Riva. Lo lasciavi in una riduzione di Cechov o Hawthorne per poi ritrovarlo a sorpresa a condurre Canzonissima accanto a Lauretta Masiero e Alberto Lionello nella popolarissima edizione 1960-’61, quella de “l’allegro ritornello, sempre quello che fa così…”. Per non parlare di Carosello, dove di anno in anno e di réclame in réclame, un Tieri fedifrago alternava vorticosamente la bella di turno – da Grazia Maria Spina a Franca Rame, da Donatella Mauri a Valeria Fabrizi e finalmente a Giuliana Lojodice -, cambiando con disinvoltura prodotti concorrenti, da Polenghi Lombardo ad Ala Zignago, lasciandoci piccoli capolavori come lo sketch della coppia di amici sfortunati in amore con Vittorio Congia per Idrolitina e quello del dirimpettaio che si trasforma in Zoddo, spadaccino mascherato nei sogni della casalinga Ave Ninchi per Pronto Johnson. Manco a dirlo, presenza ricorrente nei venerdì della prosa, di cui rivendicherà a gran voce il ripristino presso una RAI irreversibilmente votata al disimpegno e di cui ci rimangono alcune tra le sue cose più memorabili come Il calapranzi di Harold Pinter, in coppia con Gianrico Tedeschi.

Ma dove il suo nome si imprimeva a caratteri indelebili ai miei occhi di bambino era nel cast dei telegialli tratti dallo scrittore inglese Francis Durbridge che ogni settimana lasciavano senza fiato un’Italia più ingenua ma ancora capace di misurarsi con un intreccio complicato. Nel corso degli anni ’60 si susseguirono con regolarità La sciarpa, Paura per Janet, Melissa, Giocando a golf una mattina, in cui Tieri, come per gioco, fu di volta in volta l’ispettore di Scotland Yard, la vittima, l’ambiguo testimone e addirittura l’assassino. E per quanti non avessero ancora un televisore, la sua voce inconfondibile arrivava pure dalla radio, prima dai microfoni di Gran Gala, poi in quelle torpide mattine domenicali, dal teatro di via Teulada a Roma in Gran Varietà, dove insieme alla Lojodice, nei panni di Leonida ed Esmeralda, davano vita a quel campionario di piccole baruffe di coppia che tanto ci ricordavano il nostro vissuto familiare di tutti i giorni. E proprio qui, con i suoi tic, gli improvvisi trasalimenti, la fatica di darsi un contegno adeguato allo status sociale che Tieri ci si rivelava come un borghese di sicure ascendenze meridionali, somigliantissimo a tutta una tipologia di buffi amici di famiglia. In quello stesso periodo mi accorsi che invece, per chissà quale sortilegio, era lentamente scomparso dal grande schermo. Forse si era stancato di quei filmetti a episodi, un po’ tutti uguali, in cui ripeteva la macchietta del borghese nevrotico incrociando a seconda dei casi Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello con l’immancabile maggiorata di fianco, circondato da uno stuolo di caratteristi di rango come i fratelli Carotenuto, Franco Giacobini, Toni Ucci e Carletto Sposito. A metà degli anni ’70, quando col pretesto dell’Università mi trasferii a Roma, avrei potuto finalmente vederlo dal vivo, a teatro, guardarlo da vicino, insomma, si fa per dire, perché il ridotto da claquista mi avrebbe consentito al più un lontano strapuntino o un posto in piccionaia.

E invece, senza battere ciglio, sfiorai per la strada i manifesti di Un uomo per tutte le stagioni di Robert Bolt, diretto da Josè Quaglio, un titolo che lui avrebbe mutuato per definirsi “un attore per tutte le stagioni”. A quei tempi ero avido di avanguardia, di indecifrabili pièces nelle catacombali cantine romane di cui Carmelo Bene, Memè Perlini, Giancarlo Nanni, De Berardinis e Peragallo, Remondi e Caporossi, Giancarlo Sepe, con il loro seguito di adepti, erano i signori incontrastati. Quando seppi della grave malattia che aveva colpito Tino Buazzelli, indimenticato mattatore di tante serate televisive, infine mi ravvidi e feci in tempo ad ammirare in scena tutti quegli attoroni che avevano segnato dal piccolo schermo la mia infanzia e la mia adolescenza: Paolo Stoppa, Rina Morelli, Giancarlo Sbragia, Enrico Maria Salerno, Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Tino Carraro, Renato De Carmine, Valeria Moriconi, Glauco Mauri, Ferruccio De Ceresa, Ileana Ghione, Nando Gazzolo, Anna Proclemer, Giorgio Albertazzi, Paolo Ferrari, Valeria Valeri, Mario Scaccia, Franco Graziosi, Giulio Bosetti e, ovviamente, Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice. Ma a convertirmi non ero stato il solo. Proprio Giancarlo Sepe, il metteur en scène più cinéphile tra quelli che ho citato, si ritrovò a dirigere più volte la coppia di attori che ha costituito, secondo il giudizio unanime, un sodalizio prodigiosamente duraturo e saldamente attestato su standard di alta qualità, anche in annate difficili per il teatro. E’ stata probabilmente proprio lei, Giuliana Lojodice, a sottrarre il più maturo partner alla dissipazione del proprio talento inducendolo a chiudere col cinema in favore di un più rigoroso e via via più esclusivo impegno teatrale. Indubbiamente in centoventisei film Tieri ha dato molto al cinema italiano, ma senza darsi mai completamente. Certo, restano il personaggio del fidanzatino occhialuto e geloso che anticipa quello di un altro calabrese, il maritino Leopoldo Trieste de Lo sceicco bianco, fino ai tanti ruoli di spalla di lusso per Totò e Peppino De Filippo, alla prova drammatica per l’unico film di Indro Montanelli, I sogni muoiono all’alba, e poco altro. Non è da escludere però che da questi cimenti più routinari Tieri abbia tratto il modo di affinare ulteriormente le sue capacità di attore, avvalendosene in teatro, il suo vero amore ritrovato pienamente nella maturità, allorquando si riconcilierà con lo spirito dei suoi esordi.

Silvio D’Amico scrivendo al padre, il giornalista e commediografo Vincenzo Tieri, aveva usato la definizione di ” attore nato” nella quale Aroldo Tieri non si riconoscerà mai appieno, pur ammettendo, a conti fatti, che nella vita non avrebbe potuto fare altro. La sua carriera teatrale è strabiliante, dagli esordi in Accademia con Tatiana Pavlova alle puntate nei varietà di Garinei e Giovannini nel dopoguerra, fino all’innumerevole quantità di spettacoli in cui pare di sfogliare l’album di famiglia del grande teatro italiano. Se feci in tempo a vedere i suoi ultimi lavori – da Marionette che passione di Rosso di San Secondo a Care Conoscenze, cattive memorie di Horovitz fino a Un marito ideale di Wilde – rimane il rimpianto per non averlo potuto conoscere meglio. Nel ’97, nel foyer del Politecnico, glorioso teatrino romano, ebbi modo di raccontare a lui a alla sempre affascinante Lojodice di come poche sere prima, insieme ad un gruppo di appassionati, avevo rivisto in un’unica soluzione le sei puntate di Giocando a golf una mattina, interpretato da entrambi. Rimasero compiaciuti ma soprattutto sorpresi della nostra tempra di maratoneti. Qualche anno dopo li attendevamo per cena a Napoli in casa di un comune amico, critico cinematografico, ma, all’uscita da teatro, l’affaticamento per la replica e il caotico traffico del sabato sera li indussero a disdire l’impegno assunto, con mia grande delusione. Non potei così apprezzare di persona quanto da anni sentivo sul suo conto: conversatore brillante, gentiluomo d’altri tempi, elegante, raffinato, una passione per le auto veloci e, ovviamente, per le belle donne, e sì che ne aveva conosciute tante.

Scomparso alla fine del 2006, è stato ricordato di recente al Teatro Eliseo di Roma, dal critico teatrale Maurizio Giammusso, accanto alla compagna di una vita Giuliana Lojodice, nel corso di una serata in cui l’iniziale solennità si è sciolta in un clima più informale e affettuoso. Sul palco, alla presenza del Presidente emerito Ciampi, si sono alternati nel loro ricordo il Ministro dei Beni culturali Rutelli, il Direttore generale della RAI Cappon, il Presidente dei “Premi Olimpici per il Teatro” Gianni Letta, il Presidente della Regione Calabria Loiero, i registi Squarzina, Sciaccaluga e Sepe, lo storico dello spettacolo Kezich, oltre ai tanti compagni di scena. Non sono mancati gli aneddoti succosi e fuori dall’agiografia. Unanime però è stata la testimonianza di quanti lo ricordano come un signore del palcoscenico, rigoroso, perfezionista, finanche rompiscatole, come è giusto che sia quando si persegue un risultato eccellente. Al pari di altri illustri colleghi che lo hanno preceduto, pare che anche Tieri negli ultimi anni fosse rattristato e direi fondatamente, per le sorti del nostro teatro.

Ad un certo punto è riecheggiato il concetto di calabresite, lo stato infiammatorio di cui Aroldo Tieri si sentiva affetto da sempre per la lontananza dalla sua terra d’origine. Spontaneamente viene da pensare alla sicilitudine coniata da Leonardo Sciascia per indicare l’isolamento fisico e spirituale di chi vive in Sicilia. Se però ci fate l’orecchio, calabresite può suonare non solo come un termine clinico per indicare un’affezione, ma pure come il nome di un minerale. Una pietra dura, preziosa e incorruttibile, la stessa sostanza, in fondo, di cui erano fatte la passione e la tensione etica che hanno animato per una vita Aroldo Tieri nel suo lavoro di attore.