Il mestiere del critico
“IL GIOCO DELLE PARTI”, TRENT’ ANNI DOPO
L’opera di Pirandello,secondo Orsini, Valerio e Balò al Teatro Eliseo di Roma
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Notturno di nosocomio con ospiti (per lo più fantasmi, proiezioni del ‘non rimosso’, ectoplasmi d’un crudele passato per il Leone Gala, protagonista de “Il giuoco delle parti” -che Umberto Orsini interpreta (con sommessa autorevolezza) al Teatro Eliseo di Roma, adattando il dramma di Pirandello (in triade con il regista Roberto Valerio e lo scenografo Maurizio Balò) come percorso di una memoria che non trova requie per le amare vicende accadute un trentennio prima. Ed essendo l’opera originaria datata 1918, risulta pertinente, consequenziale che l’ambientazione ‘aggiornata’ rechi vaghi cenni iconografici databili alla fine degli anni quaranta. Prevalendo comunque e nell’insieme della rappresentazione una forte tendenza al paradigma marito-moglie-amante mirante all’astrazione di un eterno, martellante ‘presente’ percepibile in Pirandello quale ‘condanna del vivere’ sia nell’ “Enrico IV” (del 1922) che nei cogenti manifesti del ‘meta teatrale’ impressi dai “Sei personaggi in cerca d’autore” , “Ciascuno a suo modo” e “Questa sera si recita a soggetto”.
Desunta dalla novella “Quando si è capito il gioco”, la messinscena pirandelliana imporrebbe una meticolosa ambientazione borghese, trattando di un tipico adulterio di ‘ritualità antiche’ (ancorchè paradossali e grottesche) in cui il marito si riserva, in cambio del consenso alla relazione, la facoltà di ‘visitare’ la consorte almeno mezz’ora al giorno (crudeltà mentale o ‘amour fou’?) e ‘scaricare’ all’amante le concrete incombenze di un partner di vita, in servizio permanente ed effettivo. Sino all’estrema conseguenza di avviare quest’ultimo ad un mortale duello d’onore, non appena si sarà accorto che la vera intenzione della moglie (artatamente oltraggiata da un manipolo di avvinazzati frequentatori di vicino postribolo) è quella di sbarazzarsi un marito simile, maniacalmente e perennemente atteggiato a cinico filosofo in corso di atarassia. Come dire: non vi sono né vere vittime, né veri carnefici in questo “Gioco delle parti” che assume- oggi -sembianze dimesse, claustrali, decisamente beckettiane nel suo reiterare la (in fondo compiuta e agognata) misantropia di Leone Gala a mò di tormentone o litania di un “Ultimo nastro di Krapp” che, (mediante fastidiosa voce di raccordo fuori scena) ‘materializza’ e poi congeda, con vittimistico spregio, le trapassate figure di chi si rese responsabile di tanta desolazione, glissando abilmente sulle proprie responsabilità di marito pedante e indubbiamente codardo.
Dicevamo che le ‘presenze del passato’ (diversamente da ciò che Pirandello amava rappresentare in millimetrica presa diretta) sono ‘convocate’ tra le corsie di casa di salute, piastrellata ed asettica, ove il protagonista, ormai ottuagenario, consuma i suoi ultimi strali di vita tiranneggiando un infermiere (che ha lo stesso nome del fu -maggiordomo Socrate) e sgusciando dalle cure mediche che un forbito psichiatra vorrebbe imporgli con zelante riluttanza. Si avverte, in ciò, tutto lo strazio,l’umana inanità di un ‘eterno ritorno’ (sui luoghi del ricordo ossessivo) che, alla resa dei conti, meriterebbe solo requie ed oblio. Cedimenti cui Leone Gala si oppone con mansueta ma cocciuta pertinenza ideo\logica, non tanto sul labile varco dell’essere e dell’apparire, e nemmeno in nome di un’impossibile ‘vendetta’ già espletata (la morte in duello dell’amante) ma non del tutto espiata. Bensì sui riti ed i ritmi di ‘sacralità’ che, nella monotonia delle rimostranze stilettate come nenia mortifera, Leone Gala intende attribuire al suo mesto ma ‘trionfale’ distacco dalla passioni umane e dalla loro effimera essenza (cui mai si sottopose). Antieroe dell’inerzia ‘fattiva’ il personaggio pirandelliano, difficile da ‘decifrare’ da chi non ricorda a menadito l’originario copione dell’Agrigentino, riesce tuttavia nel suo intento di concepire la vita come malattia (non prevenibile) di un dare e subire (con rassegnazione, con stoicismo?) nel suo vortice di truffe, risentimenti, crimini del cuore e crimini all’arma bianca.
Camus avrebbe scritto che, nonostante sia preda del mito di Sisifo (o del supplizio di Tantalo), l’uomo ha il ‘dovere morale’ di una rivolta contro ogni forma di ipostura e camicia di forza, che il ‘vivere in società’ vorrebbe dargli a indumento. Orsini e il suo regista (coadiuvati da una squadra di interpreti calibrata al timbro della messinscena) esternano più indulgenza e passivo disincanto, nell’ambito di un’evocazione crepuscolare, i cui toni sdutti e ricomposizioni a mosaico potranno infastidire i filologi e puristi di Pirandello. E che (intanto e non accademicamente) sembrano incapsulare personaggi e spettatori in quel ‘guscio d’uovo vuoto’ (perno delle contorsioni concettuali del Gala) in un microuniverso di sussurri (senza grida) narcotizzanti l’attenzione di chi, per dovere critico, non può disattenderla.
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“Il gioco delle parti” da Pirandello. Adattamento di Umberto Orsini, Roberto Valerio, Maurizio Balò. Con Alvia Reale, Umberto Orsini, Michele Di Mauro, Flavio Bonacci, Carlo De Ruggeri, Woody Neri. Scena di Maurizio Balò.Costumi di Gianluca Sbicca.Luci di Pasquale Mari. Regia di Roberto Valerio. Roma, Teatro Eliseo