La divinità prigioniera di Guillermo del Toro: “The shape of water”
Non sembra casuale che in questa stagione alcuni autori più o meno importanti, da Woody Allen a George Clooney, abbiano deciso di puntare una lente anamorfica sulla società statunitense degli anni ’50. E’ evidente il tentativo, riuscito in entrambi i casi citati, di trovare corrispondenze insidiose fra quel decennio e l’attuale “epoca Trump”, caratterizzata dalla grossolanità degli enunciati tracimanti razzismo, omofobia, machismo e liberismo privo di qualsiasi regola o vincolo.
Dietro la perfezione laccata dell’America come “migliore dei mondi possibili” – pianeta luccicante abitato da uomini laboriosi e rosee, cinguettanti massaie e segretarie alla Doris Day – si celavano congegni di controllo sociale, nonché persecuzione individuale e collettiva, degni del Kgb post-rivoluzionario e dei tanto temuti bolscevichi. Non soltanto gli orrori del maccartismo, ma ancor più la capillare organizzazione tendente a normalizzare o eliminare (le porte dei manicomi si aprivano con allarmante facilità) ogni devianza.
Si unisce a questo filone cinematografico anche The shape of water del regista messicano Guillermo del Toro, Leone d’Oro Miglior Film all’ultima Mostra di Venezia e insignito di 13 nominations agli Oscar 2018.
La struttura e l’iconografia del film sembrano accostarsi alla narrativa weird di ascendenza gotico-ottocentesca, cui possono essere ascritti Angela Carter, con venature grottesche e visionarie, e Jeff VanderMeer, che innesta nella tradizione distopica elementi fiabeschi, portando alle estreme conseguenze la lezione dell’appena scomparsa Ursula Le Guin, grande miscelatrice di generi e prima teorica della fluidità del gender (La mano sinistra delle tenebre).
La vita di Elisa è scandita da rituali quotidiani immutabili: la bollitura delle uova – anch’esse omologate, irrealmente pulite e tutte di uguale grandezza e colore –, la preparazione dei sandwichs da portare con sé al lavoro, chiusi in un sacchettino di carta stretto al petto, l’onanismo privo di perversione praticato nella vasca da bagno, la visita al vicino di casa e amico Giles, un disegnatore pubblicitario di mezz’età, licenziato a causa dell’avvento delle foto e dell’omosessualità non troppo latente. Con questo gentile e malinconico compagno Elisa condivide le minute avventure di ogni giorno: i film musicali trasmessi in tv (i due esclusi improvvisano anche un divertito tip-tap rimanendo seduti sul divano), le uscite in un “caffè per famiglie” per l’acquisto di iperboliche torte azzurre e verdi glassate di bianco che Elisa non riesce a deglutire. Qualcuno forse ricorderà la disperata Laura Brown di Julianne Moore in The hours di Daldry, e i suoi vani tentativi di confezionare una torta perfetta anziché gli strani oggetti sbilenchi, metafora di una condizione interiore lacerata, che escono dal forno della cucina iperattrezzata quanto alienante.
In quello stesso caffè Giles subirà l’ostilità perbenista e aggressiva del giovane commesso, scatenata da un inoffensivo gesto di tenerezza.
Imprigionata nel mutismo per le sevizie subite nell’infanzia, di cui vediamo le cicatrici fin dalle prime inquadrature, su entrambi i lati del collo, Elisa ha sviluppato una percezione acutissima e una sensibilità estrema. Lavora come donna delle pulizie in un centro aerospaziale il cui interno, in alcune sequenze di straordinaria bellezza, viene raffigurato come il ventre di un gigantesco cetaceo dalle vertebre e costole formate da tubi metallici. Altri locali, più angusti, deteriorati da un inizio di entropia, suggeriscono l’imminente endgame della modernità. O meglio la sua progressiva metamorfosi in cloud provider, paradigma perverso utilizzato dal capitalismo immateriale, potente e manipolatorio quanto inafferrabile, indifferente al destino di cose e persone.
Elisa trova una protezione materna nella pragmatica collega di colore Zelda (la brava Octavia Spencer). Le due donne un giorno incrociano l’arrivo di un nuovo soggetto misterioso, chiuso in una capsula piena di acqua salmastra e accompagnato da un addetto alla sicurezza arrogante e violento, il colonnello Strickland. Questo energumeno, prototipo del maschio ariano fautore della supremazia della razza – per il quale si potrebbe azzardare un passato nel Ku-Klux-Klan –, oltre a urinare con le mani sui fianchi come dimostrazione di carattere virile e chiudere la bocca alla moglie con una mano durante gli amplessi per ridurla a oggetto inanimato, brandisce con orgoglio un manganello elettrificato fuor di misura (simbolo fallico?) atto a torturare a sangue la Creatura prelevata nei corsi d’acqua amazzonici, per mortificarne l’aspetto divino ed estraneo, per umiliare e piegare – incatenandolo e privandolo dell’elemento vitale, riducendolo a una povera cosa martoriata – un Essere che incarna il lato perturbante della Natura.
Nella cornice dell’intrigo internazionale fra USA e URSS legato alle missioni spaziali e agli esperimenti sull’Essere primordiale – entrambe le potenze arrivano alla conclusione di sopprimere l’anfibio umanoide e la sua strana bellezza per danneggiarsi a vicenda –, nasce attraverso piccoli approcci delicati (l’offerta di uova, l’ascolto della musica) un sentimento profondo fra i due diversi: Elisa e il Dio delle Acque. Un’attrazione dei sensi e dello spirito, una comunanza fra reietti che in realtà possono essere considerati eletti, happy few, perché in grado di percepire quel che è nascosto dietro il visibile. La realtà non basta a far diventare vera l’esistenza, e il decadimento delle qualità umane non può che far desiderare l’avvento di forme di vita pre-umane o addirittura post-umane; ad esempio gli androidi empatici e cortesi mostrati da Spielberg in A.I., o la donna-robot che riesce ad emanciparsi in Ex-machina. Per tacere dei replicanti di Blade runner, così infinitamente poetici nell’evocare in punto di morte le astronavi in fiamme alle porte di Tannhauser.
Il tentativo di portare la Creatura fuori dal Centro sembra in un primo momento avere un epilogo tragico, ovvero la morte di Elisa. Tuttavia, trascinata nelle profondità marine dall’uomo anfibio, la ragazza muta sarà riportata in vita da un suo bacio. Questo finale immerso (alla lettera) nel realismo magico sudamericano (Marquez docet) è però il vero punto debole del film. Troppo zuccheroso e hollywoodiano, più che commuovere irrita e rischia di compromettere la credibilità complessiva dell’opera.
Nonostante le scelte stilistiche, qua e là da graphic novel, gli interpreti riescono quasi sempre a superare l’unidimensionalità dei personaggi, trovando accenti toccanti o connotati da una comicità triste alla Buster Keaton. In particolare, Sally Hawkins (vista e molto apprezzata in Blue Jasmine di Allen) crea un raffinato intarsio di emozioni, trasalimenti, sogni.