La sera della prima
ALGIDA AIDA
Lo spettacolo di Roberta Torre debutta al Teatro Biondo- Palermo
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Il clangore delle armi in sottofondo, Radames, guerriero presto pentito, si muove come un pupo manovrato da logiche a lui superiori, subdole volpi strisciano ai piedi di un Narratore/Domatore che non esita ad usare la frusta, la schiava etiope riluce su un palco accennando un’aria della Traviata: è l’avvio di Aida, canzoniere teatrale in tre quadri scritto da Roberta Torre con Igor Esposito in prima nazionale al teatro Biondo. La Torre dirige il lavoro mantenendo la propria cifra stilistica, ricca di contaminazioni e guizzi estrosi, e in poco più di un’ora ripercorre la tradizione del teatro dei pupi, l’avanspettacolo, il circo, il vaudeville con l’intento di risucchiare e divertire la vorace curiosità di un pubblico assai disponibile alle novità. Ci riesce?
Anzitutto sfrondiamo il campo dalle perplessità circa la tanto discussa scelta di affidare i ruoli femminili – Aida e Amneris – ad Ernesto Tomasini e Massimo Vinti che ha accompagnato l’attesa del debutto. La regista ha senz’altro ragione quando parla di ritorno al teatro primigenio; neanche per un attimo l’attenzione è sviata dall’identità sessuale dei protagonisti che impersonano l’amore in quanto tale, davvero il genere è ininfluente sulla fruizione emotiva del lavoro: le voci sono belle e pulite, le musiche di Massimiliano Pace assecondano l’insopprimibile esigenza alchemica inseguita dalla Torre che affastella, però, nel suo spettacolo tutte le suggestioni possibili di un teatro musicale tutto da inventare, e forse ne mette persino troppe, azzarda e non indovina la formula giusta, non crea equilibrio e armonia (infatti non li cerca) ma solo volute dissonanze.
Tra queste brilla l’ambiguità di Ernesto Tomasini che, con la sua prodigiosa escursione vocalica e le sue armi affilate da apprezzato performer, dona personalità al personaggio di Aida, destrutturato e ridotto a puro nome (anche materialmente in grandi lettere illuminate e manovrate a mo’ di aspirapolvere) e riplasmato per assecondare esigenze “altre” di seduttivo camaleontismo. Quello che spiazza in questa Aida non è ovviamente il fatto di non trovarvi quasi nulla dell’opera verdiana se non il riferimento ai nuclei narrativi forti: la regista l’ha ribadito a chiare lettere e in diverse occasioni che il suo spettacolo è un omaggio al Maestro e che la direzione presa avrebbe portato da tutt’altra parte attraverso un sentiero magmatico di commistioni di stili e generi.
Quello che spiazza è che, nonostante siano state mantenute le dichiarazioni d’intenti, sulle quali la Torre e il suo valido gruppo palesemente hanno lavorano, lo spettacolo non vibra e non emoziona; il rosso dilagante della bella scenografia di Roberto Crea, un enorme specchio infranto che simbolicamente allude alla voluta rottura degli schemi tradizionali, alla desolazione sociale e politica del nostro tempo (e che rivisita la Traviata degli specchi), non riscalda uno spazio percorso ma non realmente abitato dagli attori.
Anzi, proprio quest’uso totale dello spazio, che nella Torre è anche eredità e prosecuzione dell’esperienza cinematografica, non serve ad accendere quella magia che dovrebbe scaturire dal contatto scena-platea, le schermaglie amorose delle rivali in amore, la figura tra il sadomaso e il nazista del Narratore/Domatore (Salvatore D’Onofrio) con la sua piccola corte di volpi-schiave (Silvia Ajelli, Aurora Falcone, Giuditta Jesu), prone, pettegole, istigatrici, e il Grande Circo dell’Aldilà, restano algidi e lontani, sostanzialmente statici, mentre gli unici echi che rimangono sulla pelle sono quelli desolati e orridi della battaglia nel gramelot di Radames (Rocco Castrocielo), irto di asperità e dolcezze, certe interpretazioni canore di Tomasini e il bel lamento di Amneris sull’armatura ripudiata dell’amato.
Solo a tratti quell’appiglio cercato dalla regista con la violenza e l’aridità del nostro tempo emerge tra le pieghe di una messa in scena prevalentemente onirica e allusiva. L’Utopia dell’amore e l’Utopia della pace, invece, prendono per mano, se ci si abbandona alla visionarietà e alla musica più che alle parole.