ASSASSINIO SULL’ORIENT EXPRESS
regia di Kenneth Branagh
Se l’ouverture indispone per superficialità, accumulo di stereotipi, inutile frastuono e toni sopra le righe che avrebbero fatto inorridire Mrs. Christie, l’atmosfera cambia d’improvviso quando, insieme ai numerosi personaggi, saliamo finalmente sull’Orient Express.
La cura meticolosa di ogni particolare, i toni caldi del legno, la luce d’antan delle lampade, i costumi creati per aderire ai vari caratteri (finissime le interpretazioni di Derek Jacobi, Michelle Pfeiffer, Judi Dench, Olivia Colman e dello stesso Branagh), e l’inquietudine che striscia dalle cabine letto all’impeccabile vagone ristorante, ci introducono a poco a poco in una vicenda che prende le distanze dalle implacabili e godibili geometrie della maestra del giallo per diventare altro. Con una foga romantica ed etica che ricorda la sua versione di Frankenstein del 1994, Kenneth Branagh si inoltra in una meditazione sulla colpa e sulle crepe che un lutto e un crimine aprono nel cuore umano. Se una famiglia perisce per un’azione efferata e la vita di dodici persone che a questo nucleo erano legate da vincoli d’affetto ne risulta distrutta, se l’orologio dell’esistenza si ferma e la giustizia degli uomini non basta, ossia si dimostra inefficiente, incapace, cosa si deve fare? Cosa è necessario fare?
Intrecciando toni neri e visioni dickensiane (le sequenze esterne, purtroppo penalizzate da un eccesso di elaborazione digitale) con immagini riflesse in duplicazione elusiva stevensoniana, Branagh procede affiancando a un’analisi asciutta e struggente della psiche umana immagini via via più potenti e cariche di senso, lasciandosi alle spalle gli ormai inutili indizi che, invece, nei romanzi di Dame Agatha rappresentano gli ingranaggi del motore narrativo. Le sequenze claustrofobiche girate in modo che lo spettatore si trovi a spiare dall’alto (da un foro nelle lamiere?) gli eventi che si dipanano all’interno dei vagoni, senza poter osservare i volti dei personaggi, preludono alla discesa in un racconto a posteriori del delitto, dove la tenebra shakespeariana, la disperazione dei dodici convenuti e lo spazio angusto lasciano attoniti e colmi di pietas.
Anche l’insolito Poirot di Branagh, pieno di dilemmi e nostalgie, è costretto ad abbandonare il concetto manicheo di separazione fra giusto e sbagliato, e l’ossessione raziocinante in base alla quale il caos del mondo deve essere ricondotto a un ordine matematico. Colpito dal dolore dei dodici passeggeri, da quelle vite irreparabilmente mutilate, sceglie di lasciarli liberi di trovare una forma di pace, una possibile ricostruzione dell’identità alterata dalla perdita.