Saggistica breve
Le serenate del Ciclone di Romana Petri (ed. Neri Pozza)
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Può capitare, talvolta, che certi grovigli irrisolti si addensino come una matassa gonfia e irta di nodi, che diventino indomabili e aguzzi, che reclamino attenzione e rispetto, forse anche urgenza per non trasformarsi in grumi di dolorosa attesa. E allora bisogna trovare il bandolo e con pazienza riavvolgere il gomitolo per darvi nuova forma e consistenza. L’attesa di Romana Petri è durata venticinque anni, una gestazione lentissima, una lunga notte insonne geneticamente ereditata, ma certe cose andavano dette, proprio a chi non può più ascoltarle.
Le serenate del Ciclone, ultimo romanzo della scrittrice romana, offre in copertina una foto che coagula il senso di un’operazione letteraria sicuramente difficile ma senza dubbio liberatoria e appagante: un uomo altissimo, aitante e muscoloso stringe la mano a una piccolina sorridente che sfida l’obiettivo certa di possedere un eccezionale garante per la propria incolumità. Sono padre e figlia: sono Mario e Romana.
Il poderoso romanzo della Petri, edito da Neri Pozza, è assimilabile a un film baciato da una splendida colonna sonora, ma solo la lettura del libro potrà dimostrare quanto sia calzante l’enunciato; infatti, di cinema e di musica è intrisa la narrazione di una vita, quella del padre dell’autrice, Mario Petri, cantante lirico per vocazione, attore per caso e per necessità, bello per dono di madre natura. Il taglio cinematografico cui si allude non nasce dunque soltanto dalla constatazione che il testo contiene già in sé ottimo materiale per una sceneggiatura o dalla scoperta di piani di ripresa narrativi che guidano e indirizzano lo sguardo del lettore. Il cinema diventa esso stesso oggetto del racconto, si traduce nei film che il colosso Petri girava negli scomodi panni del Maciste di turno o in quelli visti nel buio di una sala che cementava un’intesa intellettuale ed epidermica tra un padre e una figlia reciprocamente innamorati. Quei film creano miti indistruttibili, come quello di Charles Bronson; quei film porgono volti a personaggi noti soltanto attraverso i racconti paterni (struggente l’identificazione tra Bronson e il Kid, amico d’infanzia del padre di cui Romana s’innamora assurdamente di quell’amore puro e assoluto che solo la giovinezza di chi è capace di identificarsi nei sogni sa regalare); quei film ribolliscono allegramente come mosto nelle botti ancor prima di nascere negli incontri tra sconosciuti cineasti che lasceranno poi indelebili impronte nei decenni successivi. Sono la finzione contro il principio di realtà, sono la morte ricreata sul set, che risulta devastante agli occhi una bimba che guarda il proprio padre morire sullo schermo pur sentendo la stretta del suo abbraccio intorno al corpo, contro la morte vera, giunta improvvisa e rapace mentre la giovane Romana macina chilometri sotto una pioggia incessante nel tentativo tanto inutile quanto disperato di raccogliere gli ultimi sguardi o le ultime parole. Così la musica: dal timido canticchiare di un ragazzino terrorizzato dal padre violento e vigliacco (divino però nel porgere, come unico dono al figlio, l’oggetto-feticcio, il grammofono, capace di aprire orizzonti nuovi e inesplorati) al potente assolo dinnanzi agli stupefatti contadini nel casolare di nonno Damino nella mitica Cenerente.
La musica all’inizio vibra nelle serenate (quelle del Ciclone, per l’appunto, dal soprannome concesso dagli amici della banda al loro capo incontrastato) cantate sotto disponibili finestre per raggranellare un gruzzoletto e per soddisfare i primi turbamenti erotici, poi diventa obiettivo da raggiungere attraverso lezioni di canto nella capitale, perchè il suo futuro Mario lo vede nella Musica. Così sarà, infatti. Mario Petri diventerà una star internazionale e sembrerebbe il consolante epilogo secondo il quale nei sogni basta crederci per vederli realizzati… forse. Arriveranno i giorni ventosi, le delusioni e i tradimenti, quelli della compagna Giulietta Simionato, pronta a vendicarsi per l’oltraggioso abbandono, e dell’enfant prodige Riccardo Muti, dimentico delle proprie sontuose promesse. I sassi in questa storia, che sembra infinita e si consuma invece troppo in fretta, sono tanti e talvolta sono macigni intrisi di sangue e di violenza. La violenza subìta – quella domestica, quella sul ring, quella della guerra – e quella domata e incanalata che non si esercita mai sui deboli, che si trasforma in risorsa e in autodifesa nel gigante fragile che stramazza di tenerezza per i propri cani.
Romana Petri
Il romanzo, pur nella sua compattezza d’insieme, presenta una cesura plausibile e necessaria tra la prima parte – che gode del distacco rassicurante del narratore onnisciente nella rappresentazione di una realtà ricostruita e immaginata – e la seconda in cui il narratore interno, in questo caso coincidente con l’autrice, tende a mostrarsi troppo, a farsi lei stessa gigante, svicolando dal ruolo di spettatrice per aggirarsi tra le strettoie di sentimenti ed emozioni del tutto personali. In realtà la storia della propria famiglia, in cui entrano in campo medio la madre, solido punto di riferimento anche nei momenti in cui la malattia la rende apprensiva e distante, e in campo lungo il fratello David, nato per sbaglio in un momento sbagliato e forse per questo destinato a rimanere l’unico fotogramma più sbiadito, si trasforma in occasione introspettiva. Se nella prima parte abbiamo conosciuto Mario Petri, nella seconda conosciamo Romana che, raccontando del padre, racconta se stessa. L’iniziazione alla letteratura avviene attraverso i poemi omerici, epica narrata epicamente dal padre sulle sponde del letto o tra vigorose bracciate in alto mare; la conoscenza diretta dei divi dell’epoca (Maria Callas) e di quelli che lo diverranno (Sergio Leone) sboccia nel salotto di casa o nella villa al mare; l’immersione nei privilegi legati al benessere e al prestigio sociale si alterna al dignitoso destreggiarsi tra le difficoltà vissute nei giorni opachi dell’abbandono della mondanità e della comparsa delle ristrettezze economiche; il passaggio dalla cieca dedizione infantile per un padre bellissimo e protettivo si contrappone alla feroce conflittualità dell’adolescente in cerca di un’indipendenza fisica ed ideologica nel tentativo di ricacciare nei confini di una tranquillizzante normalità un affetto a tratti oppressivo e dal sentore vagamente coercitivo.
I protagonisti, dunque, diventano due e la figura paterna, adesso ricondotta sul terreno della cronaca più che dell’invenzione letteraria, appare paradossalmente meno autentica. Fin troppo facile cadere nell’agguato del coinvolgimento emotivo, il filtro dell’amore filiale detta le sue leggi anche quando si pensa che lo sguardo abbia la necessaria oggettività. Troppo facile, quindi, si può dedurre che alla Petri quell’oggettività non interessasse affatto, anzi che desiderasse proprio edificare un monumento risarcitorio; anzitutto per se stessa e per quel carico di incompiuto e di non detto che i figli si portano sempre addosso come un dolore senza nome e poi per un ambiente che non ha pagato alcun prezzo per la precoce sfioritura di un uomo che avrebbe potuto rimanere solido come una quercia.
A libro finito, si verifica un altro paradosso: praticamente conosciamo tutto di Mario Petri, o almeno tutto quello che la figlia ha voluto raccontare, ma si accenderà la sete di saperne ancora di più su quell’uomo e la sfida potrebbe essere quella di non correre su youtube per ascoltare alcuni brani o per vedere spezzoni di film.
Resteranno, invece, cesellati nella memoria, i ritratti dei nonni di Mario, l’energico, saggio e paziente Damino e la moglie Olimpia lentamente travolta dalla demenza, anziani che odorano di cibo genuino e di dialetto e che parlano di un’Italia ormai lontana, agreste e laboriosa, attraversata dalla dittatura e dalla guerra ma sempre viva e orgogliosa. Personaggi che resteranno in buona compagnia insieme con tutti gli altri membri della famiglia: la madre Terzilia, esposta subito attraverso il travagliato parto, il padre Attilio, donnaiolo e alcolizzato, l’incolore fratello Paolo, frutto di un amore illegittimo ma autentico e pertanto forse figlio più amato. Chissà, forse proprio alla figura di Terzilia, una madre che resterà autentica anche quando, sfatta e lagnosa, cercherà di riparare l’altro figlio, quello debole e inconcludente, dall’ombra lunga del fratello maggiore, la Petri aveva già attinto per regalare spessore e verità a Maria do Ceu, una delle granitiche protagoniste di Ovunque io sia, entrambe madri dentro le viscere e dentro il cuore, entrambe ostinate e cocciute sino all’inverosimile.
Se Ovunque io sia era stato il romanzo della maternità, sinonimo di amore incondizionato che riesce a valicare anche i confini della morte, Le serenate del Ciclone potrebbe essere il romanzo della paternità in una generazione ancora in cerca di identità, perennemente in bilico tra l’esibizione di una severità senza concessioni, in sostanza quella ricevuta, e la consapevolezza nuova dei cedimenti affettivi, delle debolezze non più celate.
Infine sarà il lettore a cadere nel tranello, quello teso da una scrittura magnifica, lenta e vorticosa, semplice e densa. Incontrare le pagine di Romana Petri una volta significa avere la certezza che si cercheranno altri appuntamenti, la sua voce mai urlata avvolge come una coperta da cui non ci si vorrebbe più staccare.