Il mestiere del critico
TRASFORMARSI IN MOSTRI?
“Effetto Lucifero”, compagnia Oyes\Teatro Filodrammatici, al Libero di Palermo
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Quello di Lucifero/Satana è un binomio tanto inscindibile quanto osceno che sigilla una verità sconcertante: la coincidenza degli opposti. Chi era, infatti, Lucifero prima di diventare Satana se non l’angelo più bello, il portatore di luce che si trasforma nel principe del Male? E cos’è in realtà il Male? Un istinto che alberga spontaneamente in uomini ad esso predisposti, una caratteristica che separa nettamente l’umanità in buoni e cattivi?
Riflettendo su questi interrogativi, resi brucianti e attuali dalla cronaca, la compagnia Oyes/Teatro Filodrammatici Milano porta in scena, al teatro Libero, Effetto Lucifero, spettacolo che si ispira all’esperimento carcerario di Stanford, descritto nell’omonimo libro dello psicologo sociale Philip Zimbardo, attraverso il quale giunse la conferma che i concetti di Bene e Male derivano da schemi religiosi e morali che salvaguardano, attraverso una netta separazione, l’universo dei buoni da quello dei cattivi, e che la pratica del male, l’effetto Lucifero per l’appunto, può essere prerogativa di tutti in quanto frutto di una “struttura di appartenenza” e di una “situazione concreta”.
Dietro queste spinte, anche l’uomo più buono può trasformarsi in carnefice. Solo così possono essere letti e interpretati fenomeni di violenza collettiva o individuale che hanno caratterizzato intere epoche storiche (i genocidi) o individui normalmente sani e integrati (il sadismo dei militari in Iraq nel carcere di Abu Ghraib o gli abusi sui detenuti di Guantanamo). Dario Merlini (in scena anche come interprete) scrive, dunque, un lavoro singolare che, partendo da un’astrazione, ricrea una situazione simile a quella di Stanford.
L’assunto iniziale è capovolto – lì i soggetti coinvolti provenivano da un normale quotidiano, qui invece scappano da una situazione di indefinita emergenza e trovano nell’ambiente chiuso della casa un possibile rifugio – ma le regole del gioco sono ancora una volta dettate dal caso – lì il lancio delle monete, qui il ritrovamento di una chiave all’interno delle tute indossate. Si definisce così, in tempi rapidissimi, lo schieramento in gruppi contrapposti e si avvia quel processo di de-umanizzazione che rende possibile la riduzione dell’avversario in oggetto da maltrattare, umiliare, distruggere.
“Bisogna avere fede e fare il nostro dovere” dichiara uno dei personaggi che abbraccia senza alcun contraccolpo morale la via della sopraffazione: un credo ideologico e lo spirito di adeguamento all’autorità sono quindi le basi sulle quali attecchisce l’orrore percepito come normalità. La regia di Andrea Lapi e Umberto Terruso crea un clima stridente che mescola tensione emotiva, stralci intimistici e grottesca allegria. I rumori di sottofondo sottolineano i passaggi drammaturgici, dalla pioggia sferzante che esaspera gli animi e li rende facili prede di stati di alterazione di coscienza, al frinire delle cicale, che maschera il sadico esercizio della sopraffazione dell’improvvisato capo del gruppo, così come l’alternanza del buio e della luce simbolicamente rimanda al blackout della ragione.
Stefano Cordella, Daniele Crasti, Massimiliano Mastroeni, Dario Merlini, Dario Sansalone, Fabio Zulli, delineano, con una recitazione talvolta immatura, diversi tipi umani accomunati dall’eccezionalità dell’evento condiviso, in cui la volontà si piega ai dettami di un’Autorità senza volto né nome che pretende cieca obbedienza e dedizione. La violenza è dunque una variante impazzita, un errore all’interno di una struttura sociale sana o viene generata proprio all’interno di quella struttura apparentemente funzionante? Anche in scena, come nell’esperimento reale di Zimbardo, il gioco si interrompe per le sue ingestibili conseguenze, ma l’inquietudine rimane e lo spettatore non può sottrarsi al dubbio doloroso che si insinua sottopelle: e io, potrei anch’io trasformarmi in un mostro?