Punto di (s)vista
MARTIROLOGIO MULIEBRE
“Jackie” regia di Pablo Larraìn con Natalie Portman, Peter Sarsgaard (in concorso all’ultima Mostra di Venezia)
****
Sapendo che una parte dell’opinione pubblica americana (la più numerosa) ama le glorificazioni acritiche delle magnifiche sorti e progressive della Nazione, si può fin d’ora prevedere la pioggia di oscar che verrà fatta cadere su “Jackie” e sull’interpretazione artificiosa di Natalie Portman.
Il film racconta i tre giorni successivi all’assassinio di John F. Kennedy attraverso una lunga intervista rilasciata dalla first lady a un giornalista di fiducia. Il dialogo fra i due è continuamente interrotto da flashback riguardanti la vita della coppia presidenziale. E se la figura di John Kennedy viene poco esplorata nei suoi lati oscuri (certi legami della potente e ultracattolica famiglia d’origine con la mafia, le scelte discutibili in materia di politica estera per es.) a favore dell’immagine luminosa e idealistica frutto del modello introiettato per decenni e ormai fossilizzato, a quella di Jackie viene concesso uno spazio debordante.
Veniamo a sapere pressoché tutto della superficie delle cose: l’entità delle somme spese per le modifiche alla Casa Bianca dopo l’insediamento, le interviste studiate in ogni dettaglio, a cominciare dai sorrisi, e guidate da una collaboratrice, l’origine della reliquie storiche (poltrone, divani & co.) che formano l’arredamento, gli abiti Chanel indossati dalla Signora. Si intuisce un ritratto di donna futile ma estremamente intelligente. Una ex giornalista che possiede una visione precisa delle possibilità manipolatorie dei media, in particolare del mezzo televisivo, e se ne serve per edificare una vera e propria mitopoiesi politico/familiare ad uso e consumo delle masse.
Deificare il marito per acquisire uno status inattaccabile fatto di minuzie domestiche e glamour pubblico, questa appare la finalità di ogni sua azione. Nonostante si cerchi di accreditarla come donna innamorata e martire, straziata dalla morte del marito, conserviamo il retropensiero maligno che ogni sua parola successiva all’assassinio abbia come movente il tentativo di entrare nella Storia. Persino la frase, trascritta nell’intervista, che descrive il momento esatto della morte di Kennedy: aveva un’espressione meravigliosa, come se fosse perplesso davanti a una domanda, non emana propriamente verosimiglianza.
Persino il fasto asburgico e necrofilo del funerale (si immagina costosissimo) non è che il tassello finale del martirio vissuto stoicamente, dell’autorappresentazione di una figura egoica e sconnessa dalla realtà.
Ed effettivamente, quel corteo funebre che si sdipanò dalla Casa Bianca alla Cattedrale di St. Matthew, con annessi cadetti irlandesi, carro trainato da cavalli e vedova in elegantissime gramaglie con piccini affranti al seguito, è entrato nell’immaginario collettivo, esempio fulgido di mistificazione perseguita oltre ogni limite.