Punto di (s)vista
L’ EPOPEA DISONOREVOLE DI KICHIJIRO
“Silence” regia di Martin Scorsese
con Andrew Garfield, Adam Driver, Yosuke Kubozuka, Issei Ogata, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Liam Neeson Produz. USA/GB/Giappone, 2016
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Silence è un film che ti segue come un’ombra, ti bracca. Anche dopo, molto dopo, similmente alle apparizioni inspiegabili che inquietano i personaggi dei racconti di Edith Wharton, mostrando il loro significato, spesso crudele, in un futuro che d’improvviso ti mura vivo e senza fiato dentro il dolore.
Vorresti gettarlo via, in un angolo qualunque, e invece torna. Torna ad assediare i pensieri con le sue domande senza risposta. L’urlo di Padre Garupe “prendete me” lacera la nebbia, mentre alcuni contadini vengono uccisi in modo atroce, avvolti in stuoie di bambù e gettati in mare solo per aver abbandonato il culto buddista imposto, anche col terrore e il ricatto, dal Bakufu istituito dallo Shogun Tokugawa. Un’invocazione che appartiene a ciascuno di noi. Chi non l’ha mormorata o urlata nel corso della vita? Chi non ha avvertito l’impellenza ulcerante di strappare qualcuno alla morte, o alla sofferenza? Chi non ha provato la necessità di un tentativo disperato, anche a costo della propria vita?
Infatti Garupe muore annegato, e si tratta di una morte cercata, che lenisce il senso d’impotenza e di colpa innescato da un onnipresente dilemma morale. Inizialmente inflessibile, il viso di Garupe prende ad ardere di disperazione davanti all’innocenza dei contadini che lo onorano come un dio, e proteggono lui e Padre Rodrigues rischiando ogni giorno di cadere nelle mani del mellifluo Inquisitore Inoue Masashige. Il dubbio che tortura Garupe e ancor più Rodrigues è che la fede non possa giustificare un’evangelizzazione talmente avversata dalle autorità giapponesi da scatenare una persecuzione anticristiana e una conseguente strage di inermi, di poveri, di vecchi.
Lo scopo principale dei due giovani gesuiti portoghesi era in origine quello di ritrovare il loro maestro Padre Ferreira, scomparso da anni in Giappone e accusato di abiura dall’Ordine, però il contatto con gli abitanti dei villaggi li porta a scoprire il senso più profondo della parola compassione: patire insieme, sentire nella carne la necessità, fisica e interiore, che si agita informe nell’altro, percepire la vita negli occhi di un proprio simile. Una creatura che, appartenendo a una cultura molto distante, non riesce a comprendere il concetto di trascendenza dell’umano insito nel Cristianesimo (come fa notare l’Inquisitore a Rodrigues), e quindi avverte il bisogno struggente di una Guida che incarni il Dio e si prenda cura della comunità, trasformando la prospettiva del Paradiso in una condizione tangibile e visibile nella vita quotidiana.
Rodrigues, dopo aver sofferto per anni il silenzio di Dio, non cessando mai di invocarne la voce e la presenza, si troverà ad affrontare la scelta più terribile: abiurare e calpestare l’immagine di Cristo o lasciar morire dissanguati a poco a poco cinque contadini appesi a testa in giù in pozzi scavati appositamente. Non si tratta del martirio eroico che nei suoi intenti lo avrebbe reso simile a Cristo, ma solo di una decisione che si configurerebbe come arrogante e disumana. Rodrigues (interpretato dal giovane Andrew Garfield con intensità e asciuttezza esemplari), pur con l’anima che sanguina, posa il piede sull’immagine.
Può darsi che, formulo ipotesi non essendo pratica della materia, sia assurdo pretendere che Dio ci parli. Forse parla attraverso tutto quello che abbiamo intorno, e dentro (compresi gli errori, le distrazioni colpevoli, l’indifferenza, l’insensibilità, se solo riusciamo a capire). Forse somiglia al Dio smarrito e poeta di Malick (quando potremo vedere Voyage of Time in Italia?), un Creatore che non sa, che invoca il manifestarsi di una Madre assente, che abita dentro l’incessante meraviglia delle forme, che attraverso il suo desiderio dà inizio alla vita, ma non è in grado di interferire con ciò che si va plasmando nell’universo e nel cuore dell’uomo.
Sono tanti i momenti avvincenti e difficilmente dimenticabili in Silence: per es. le dispute filosofico/politiche, anche ironiche, fra Inoue e Rodrigues, o quelle teologiche, tese, ambigue, fra Ferreira e il giovane Padre gesuita. Però la figura che si imprime a fuoco nella mente è quella di Kichijiro (Yosuke Kubozuka plasma un fool shakespeariano tragico e patetico, capace di straordinarie controscene), pavido e traditore recidivo, eppure toccante nella sua sofferenza, nel perseguire tenacemente un riscatto di cui non è capace. Kichijiro rappresenta probabilmente l’umanità intera, che cade e cade di nuovo, e soffre, soffre immensamente per la propria inadeguatezza.