Una “Sarabanda” d’amore e morte. Roberto Andò consegna al palco l’ultimo capolavoro di Ingmar Bergman
@Anna Di Mauro, 8 marzo 2025
È un componimento di Bach, la Sarabanda, Suite n°5 per violoncello, a dare il titolo e a far da leitmotiv all’ultimo film (2003) di Ingmar Bergman e all’adattamento teatrale di Roberto Andò. La presenza della musica è stata sempre fondamentale nei lavori del grande regista svedese, vieppiù in un congedo dell’ultraottuagenario prima di ritirarsi dalla scena della vita. La summa della sua weltanschauung in questa ultima opera, strutturalmente assimilabile a un soggetto teatrale, tocca i vertici dell’incomunicabilità, dell’amore distorto, dell’egotismo, della deriva dei sentimenti, della paura della morte, dell’angoscia di vivere, dell’anelito a una trascendenza. Di questa suppurata e fertile identità si fa carico la regia teatrale di Andò, fedele fin quasi alla fine.
Eppure fino a quel momento la musica di Bach, i dialoghi serrati e incandescenti, le inquadrature di sapore cinematografico grazie allo scorrimento di quinte mobili, la scenografia palpitante di luce essenziale, gli interpreti eccellenti, la regia nitida e felicemente coerente, ci avevano fatto assaporare una rispettosa quanto creativa riproposizione dell’originale. Colpo di coda ci ritroviamo con un epilogo diverso, forte e ineludibile che si riflette inevitabilmente su tutta la pièce. La scelta di quel finale vuole rivendicare un’autonomia della regia teatrale o interpretare quell’esplicito richiamo alla “Nuda Veritas” dell’ultima scena del film? La questione non compromette il giudizio critico su un’operazione artistica che fa di questo “Sarabanda” in palco uno spettacolo di alto profilo.
Andò è stato capace di restituirci con fedeltà, ma anche originalità le atmosfere bergmaniane del suo ultimo film, intrise di problematiche psicologiche ed esistenziali e di un’acuta indagine sull’ “essere o non essere”, testamento del grande regista svedese, a suggello di un’opera cinematografica complessiva che ha illuminato e nutrito il panorama artistico della settima arte e che continua a riverberare la sua luce. Ne è un esempio questo elegante adattamento condotto in stato di grazia, che ci offre una efficace drammaturgia teatrale, sapientemente arricchita dalla ricca esperienza cinematografica del regista siciliano. Nel film Johan e Marianne, gli stessi protagonisti del leggendario “Scene da un matrimonio” interpretati da Erland Josephson e Liv Ulmann, ritornano una di fronte all’altro dopo trent’anni.
Sul palco la coppia è magnificamente incarnata da un grande Renato Carpentieri e da una solida Alvia Reale, affiancati magistralmente dall’ottimo Elia Schilton nei dolorosi panni di Henrik e dall’irruente Caterina Tieghi nel ruolo della disperata Karin. Il quartetto ruota sinergicamente intorno ai temi prediletti di Bergman, avviluppandosi in un carosello di virtuosismi di scena, senza sbavature, modulando l’intensità dei toni, calibrando i rigurgiti emotivi, i silenzi, sostenendo un climax di notevole spessore assolutamente coinvolgente. In dieci quadri, debitamente “incorniciati” da nere quinte mobili, che evocano le atmosfere algide e allucinate dei quadri di Hopper, si snoda la storia di una famiglia dai legami complessi e contorti, attraverso asciutti e crudi dialoghi a coppia, come nella danza delle sarabande. Johan, alter ego di Bergman, vecchio e prossimo alla morte, rifugiatosi in solitudine in una casa sul lago in mezzo al bosco viene raggiunto dall’ex moglie Marianne con la quale non si vedevano da ben 32 anni. Non lontano dal vecchio riottoso e irascibile in una dependance in fondo al lago vive insieme alla figlia adolescente Karin il figlio Henrik, devastato dalla morte dell’amata moglie Anna, avvenuta due anni prima.
Da quel drammatico momento tra i due si è instaurato un legame morboso, ambiguo, in odore di incesto, acuito dalla comune passione per la musica. Padre e figlia suonano il violoncello, lui la istruisce coltivando per lei sogni di gloria, mentre lei si sente inadeguata e disperatamente prigioniera dell’amore del padre. Padre e figlio non si frequentano. Henrik odia Johan fino a desiderarne la morte, perchè lo ha abbandonato a sei anni per inseguire i suoi amori passionali, determinando nel figlio una personalità abbandonica fragile e incline a scoppi d’ira e violenza nei confronti delle persone che ama e che non vuole perdere. In questo profilo inquietante riaffiora potente l’attenzione di Bergman per l’infanzia. Anna, l’assente-presente, continua ad aleggiare intorno a loro con la sua carica di amore e saggezza. Sentono tutti la sua mancanza, persino il vecchio cinico e stanco. Per lui era una presenza benefica che riusciva a rendergli più sopportabile la vita. Marianne piomba in quest’atmosfera di cupezza, ascoltando tutti e mediando la disperazione del nucleo familiare a cui guarda con empatia senza perdere lucidità. Potrebbe essere l’alter ego di Anna, giunta misteriosamente a sanare diatribe e lacerazioni. Il dramma della scelta fa da trait d’union a queste anime inquiete che vivono il loro inferno pagando il prezzo delle scelte fatte o da fare. Marianne, angelo tutelare o deus ex machina, sembra essere olimpicamente fuori da tutto questo, capace di accogliere e contenere le miserie dei suoi interlocutori, maieutico contenitore d’anime. In questo clima di sfacelo finisce per risaltare la debolezza delle figure maschili, a fronte di una energia positiva delle due donne a cui forse Bergman consegna il futuro dell’umanità e uno spiraglio di speranza. In questa direzione l’epilogo teatrale proposto da Andò, apparentemente discosto da quello cinematografico, nella sua estetica, che richiama “L’urlo” di Munch, ci porta in una dimensione metafisica e onirica di forte impatto, quasi un invito a liberare il corpo e l’anima da inutili orpelli che gravano sulla natura complessa degli uomini e delle loro farraginose relazioni con sè stessi e con il mondo, finalmente in piena accettazione di ciò che veramente siamo nella nostra umana fragilità.
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Roberto Zatti
regia Roberto Andò
scene Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
Con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Teatro Nazionale di Genova / Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd, per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, Londra, per conto della Ingmar Bergman Foundation
Al Teatro Verga di Catania fino a Domenica 9 Marzo