Le insidie di Avalon, fra hybris e frustrazione
di Lucia Tempestini 02-01-2017
“Passengers” regia di Morten Tyldum con Chris Pratt, Jennifer Lawrence, Michael Sheen Produz. Usa 2016
La nave spaziale Avalon, appartenente alla flotta di una multinazionale che si occupa di trasferimenti galattici, procede nei suoi 120 anni di viaggio verso il pianeta/colonia Homestead II. Attraversa i fiocchi lattiginosi delle nubi interstellari formatesi in seguito all’esplosione di fiammeggianti supernove e, talvolta, alla fusione nucleare delle stelle. Questa polvere di silicati, grafite e carbonio assorbe o riflette la luce e, insieme alle formazioni di condrite porosa interplanetaria, crea suggestioni visive che nessuno a bordo è in grado di ammirare.
I 5000 passeggeri e i 280 membri dell’equipaggio giacciono infatti in uno stato di sonno criogenico, chiusi in capsule trasparenti d’ibernazione (come in Alien e in 2001 Odissea nello spazio) e avvolti dal sottile ronzio di sistemi di controllo ipersofisticati. La parte più inquietante e potente del film è senza dubbio la panoramica degli interni di Avalon: un chilometro di strutture smisurate e dominate dal Vuoto, il cui nitore disumanato e l’asettica funzionalità delle linee sembrano alludere a una morgue delle anime, prima ancora che dei corpi.
Vite sospese, come quelle di certi personaggi delle fiabe, o di Oblomov; esseri umani di estrazione sociale e formazione culturale assai varia che l’avidissima e assai classista Organizzazione (su Avalon persino le portate della colazione sono stabilite in base al reddito accertato) è riuscita a sedurre con melliflui e scontati messaggi, facendo leva sulla hybris intellettuale, per es. di Aurora Lane, che spinge con prepotenza a sottovalutare gli affetti e le possibilità di cui già siamo circondati per inabissare tre volte la nostra fragile imbarcazione oltre le Colonne d’Ercole, fino al richiudersi delle acque sulla nostra stupidità e sul pianto di chi ci siamo lasciati con leggerezza alle spalle.
Altre volte, come nel caso di Jim Preston, la persuasione, non occulta bensì quasi spudorata, agisce sui fallimenti delle potenziali prede, sul sentirsi estranei ai meccanismi sociali imperanti, sul desiderio angosciato di assumere una forma che corrisponda il più possibile alla percezione della propria identità e capacità di plasmare gli elementi di base per costruire un “mondo nuovo” che sia anche molto antico, molto umano.
Dopo trent’anni di viaggio, la nave spaziale si scontra con un meteorite. L’impatto produce una gravissima avaria, che darà luogo nell’arco di due anni a una reazione a catena di guasti e anomalie funzionali, il primo dei quali è la disattivazione precoce della capsula d’ibernazione del passeggero Jim Preston. Il giovane ingegnere attraversa tutti gli stadi dell’alienazione da solitudine: l’iniziale spaesamento, i tentativi rabbiosi di trovare una soluzione impossibile, la ricerca altrettanto impossibile di un adattamento all’ambiente attraverso l’utilizzo degli “svaghi” previsti per i passeggeri durante gli ultimi quattro mesi di navigazione: un campo di basket, una pista da ballo con ologrammi danzerini, e Arthur, unico vero compagno, un barman/androide troppo innocente per avere dei punti in comune con il satanico barista fantasma di Shining.
Ascoltando le sue frasi sul rapporto luogo-tempo, e sul concetto di serendipiy che scorre sottotraccia in tutto il film, vengono in mente alcuni personaggi surrealmente saggi di Alice in Wonderland. E’ vero che troppo spesso giriamo a vuoto, sempre trascinati dalla voglia di essere da un’altra parte, in un altro momento, con un’altra persona, a fare un’altra cosa, scordandoci la necessità morale della concentrazione, dell’attenzione, della presenza reale.
Ma Arthur, il bravissimo Michael Sheen, non può bastare, così Jim scivola in una progressiva cupio dissolvi. Non cura più l’igiene personale, non si veste, non si rade, si abbrutisce, comincia a desiderare la morte. Fino al giorno in cui decide di indossare la tuta spaziale esterna e volare fuori, fuori da quella prigione d’acciaio, fuori da se stesso. La scossa emotiva è violenta fino al pianto. Il silenzio e l’assenza di limite, le luci e il buio, l’irrilevanza di una figura umana dentro quell’immensa inconoscibilità, scatenano in Jim, per paradosso, un attaccamento animale alla vita. La sequenza, pur lontana dal virtuosismo visionario e lirico di Gravity (e purtroppo Chris Pratt non è Sandra Bullock), lascia un segno nella memoria.
La vicenda accelera. Jim individua una “dormiente”, la scrittrice Aurora Lane, che potrebbe rendere la sua non-esistenza meno derelitta, e pur fra mille dubbi etici decide di disattivarne la capsula. Nessuno è così stoico da sopportare in solitudine l’inferno in cui sta sprofondando; si preferisce rubare la vita a qualcun altro pur di non restare da soli a guardare nello specchio il riflesso del nostro fantasma. Se l’Altro non ci guarda, non esistiamo.
Purtroppo da questo punto in avanti la storia diventa troppo dialogata e s’invischia in melensaggini sciroppose da commedia sentimentale. Inoltre, il risveglio dell’ipervitaminizzata Jennifer Lawrence, che come di consueto si affida alla prestanza fisica e a una gamma di sfumature espressive non ricchissima, non suscita gli entusiasmi dello spettatore appena esigente.
Si salvano ancora alcune sequenze di sbalorditiva realizzazione, come l’acqua della piscina che diventa una fatale bolla azzurra a causa di un’improvvisa caduta di gravità interna, o la riparazione del condotto di aereazione del generatore di Avalon.
Appare invece abbastanza ridicola la “resurrezione” di Jim operata dalla capsula medica. Se non si fosse voluto cercare il lieto fine hollywoodiano a tutti i costi, il sacrificio di Jim e la reazione di Aurora potevano innescare una riflessione non banale sull’incapacità umana di far fronte al dolore e alla perdita, sullo strazio che origina dall’irreparabilità di un evento.