La rievocazione di un universo sordido e sublime. Giuseppe Battiston ne La valigia di Sergej Dovlatov
@ Amedeo Ansaldi, 21 novembre 2024
Domenica 10 novembre presso il Teatro Il Maggiore di Verbania Giuseppe Battiston ha portato in scena il fortunato monologo La valigia, adattato per l’occasione da Paola Rota, regista dello spettacolo, e dallo stesso attore friulano. Il testo è tratto dall’omonima raccolta di racconti autobiografici di Sergej Dovlatov (1941-1990), tradotta in Italia per Sellerio (1999) da Laura Salmon.
Le piccole, pertinenti modifiche non compromettono lo spirito del libro. All’apertura del sipario, voci gracchianti, fastidiose interferenze, microfoni ovunque. Battiston, sbracato e convulso, si aggira in scena fra luci soffuse: ci troviamo in uno studio radiofonico. Dall’alto è calata una pallida semisfera opaca, che ogni tanto muta colore.
Lo spunto di partenza è semplice e decisamente felice: Dovlatov era emigrato, come tanti altri intellettuali, dall’URSS negli Stati Uniti. Il suo fortunoso bagaglio di esule si riduceva a pochi oggetti, per lo più senz’altro valore se non affettivo, riposti nella valigia del titolo che, una volta giunto a destinazione, il viaggiatore avrebbe riposto, senza aprirla, in un angolo dell’armadio della sua nuova casa per poi dimenticarla. La narrazione parte dal momento in cui, anni dopo, la ritrova per caso e, incuriosito, la disfa, estraendone con emozione crescente gli oggetti, ciascuno dei quali gli richiama alla mente eventi fra i più vari dei suoi trascorsi in terra sovietica.
Ogni tanto sul fondo della scena viene soffiato del vapore, immagine dei ricordi che riemergono dalla nebbia di un passato irrimediabilmente perduto.
La rievocazione di tanti episodi della sua vita precedente procede con crudele lucidità, nel rifiuto di qualunque idealizzazione di sé stesso e degli altri soggetti che idealmente affollano la scena: La valigia è, prima ancora che monologo, un’opera corale. Il protagonista e tutti gli altri personaggi cui Battiston infonde, dal nulla, la vita si muovono in un universo che sarebbe stato presto spazzato via dalla Storia; descrivono inconsapevolmente il sordido, malinconico tramonto di un ambizioso e fallimentare esperimento socio-politico – il comunismo – che nel XX secolo ha trovato applicazioni su vastissima scala.
Sarebbe sbrigativo concludere che La valigia sia un’opera di denuncia di quella “grandiosa e inaudita impostura”. Ovviamente Dovlatov era consapevole dei mali che affliggevano la società sovietica, che nel corso della narrazione emergono anzi impietosamente, ma non può in alcun modo essere genericamente assimilato alla coeva dissidenza politica. Lo scrittore avrebbe lasciato, e per propria scelta, la terra natale solo molti anni dopo la partenza della moglie, e non per altra ragione che poter pubblicare i suoi libri. Vero dissidente Dovlatov doveva diventarlo nella patria d’adozione, dove, emarginato cronico, avrebbe rinunciato perfino all’uso dell’automobile, in un’epoca in cui questa modesta comodità era diffusa nella stessa madrepatria.
Gli episodi che compongono il monologo delineano il quadro di un Paese in cui la gente viveva al di fuori delle regole, solo teoricamente rigide, molto più spesso di quanto possiamo raffigurarci. L’invitta anima slava – bislacca, generosa, incoerente – sopravviveva a fianco di Marx e di Lenin; palpitava ancora sotto le viete, stremate convenzioni del bolscevismo.
Sono tanti e così diversi fra loro gli aneddoti che il narratore racchiude nella sua serrata testimonianza che Dovlatov pare aver vissuto svariate vite; nella sua esperienza sovietica – i suoi primi 38 anni – ha svolto le più disparate attività. Temperamento indolente e anarcoide, incline alla dissipazione, cresciuto nell’oscuro sottobosco della società russa, si è dedicato a piccoli ma fiorenti affari, quale per es. lo smercio di prodotti occidentali al mercato nero; è stato militare, paziente d’ospedale, ladruncolo improvvisato, guardia carceraria, carcerato egli stesso, guida turistica, marito distratto, attore privo di talento, soprattutto giornalista di vaglia, trascinando sempre la propria vita ai margini della società e al limite del totale fallimento sul piano umano e sociale.
La storia dell’amicizia fra due famiglie – la sua e quella, più benestante, del suo miglior amico – ci suggerisce che esistevano ceti sociali e uno strisciante classismo anche in quella Russia in cui tutti, dai membri del Politbüro ai più umili cittadini, erano paritariamente definiti ‘compagni’: un firmamento iniquo e miserabile segnato da corruzione dilagante, alcolismo endemico, antisemitismo strisciante, brutalità e prevaricazioni diffuse, e abitato da un campionario di personaggi fra i più disastrati: bevitori di vodka, scapestrati senz’arte né parte, incorreggibili attaccabrighe, bagarini, ricettatori, delinquenti dall’umore instabile…: un humus nel quale tutto appare precario e a tutto si deve essere preparati. Assente è, qui, qualunque facile giudizio moralistico su quella canaglia dei bassifondi, disparata e umanissima, disillusa da generazioni e incline a un pungente umorismo nero, nel cui seno nessuno, in fondo, ha ragione o ha torto; pensarlo sarebbe troppo consolatorio.
Battiston affronta l’impegnativa, complessa performance, della durata di 75’-80’, con grande determinazione ed esemplare professionalità; inanella una sequenza di aneddoti legati fra di loro solo dalla voce e dalla – vistosa – presenza dell’attore, ma che si saldano a comporre un quadro complessivo organico, credibile, concreto. Dolente e sardonico, Battiston dà voce ai diversi personaggi caratterizzando in modo inconfondibile ciascuno di essi per il tono della voce, le vaghe inflessioni dialettali, i tic ricorrenti e, talvolta, la fortunata reiterazione delle formule: strepitoso per es. il “sarebbe una forzatura!” dell’irresponsabile, scriteriato cugino. Sono patetiche macchiette, emblematici antieroi, figure di perdenti inermi di fronte al caos, rievocati, tutti, con possente pietas. La recitazione incalzante e desultoria alterna pause scaltrite ad accessi di efficace, misurato istrionismo.
Lo squallore della rievocazione esalta la verità profonda che emana dai personaggi, resi ancora più autentici dai loro errori e dalle loro tare ataviche, e non occulta una nostalgia sotterranea, insopprimibile, fortissima. Impossibile ritrovare qualcosa del genere in quell’America dove lo scrittore era riparato e aveva potuto pubblicare i suoi libri; quell’America da cui risuona la sua voce, e nella quale i rapporti fra gli uomini e le cose, il senso stesso della vita appaiono tristemente rovesciati: gli oggetti, sostituiti non appena evidenzino il minimo guasto o segno d’usura, – come esigono gli stringenti dettami del consumismo – lì non fanno nemmeno in tempo a occupare un posto nel cuore delle persone.
Dovlatov è strappato al suo insignificante presente americano dall’antico bagaglio e dai ricordi che questo suscita: com’è ripetuto più volte in scena, “quella valigia siamo noi.”
Dal 3 all’8 dicembre 2024 al Teatro Franco Parenti di Milano
La valigia
tratto da La valigia di Sergei Dovlatov*
traduzione Laura Salmon
adattamento Paola Rota e Giuseppe Battiston
regia Paola Rota
con Giuseppe Battiston
scene Nicolas Bovey
costumi Vanessa Sannino
luci Andrea Violato
suono e musica Angelo Elle
produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo