“Mein kampf”: autobiologia di un tiranno, a cura di Stefano Massini

Mein Kampf: autobiologia di un tiranno, a cura di Stefano Massini

@ Rinaldo Caddeo, 14 ottobre 2024

Sono trascorsi 100 anni da quando Adolf Hitler detta, nell’estate del 1924, il Mein Kampf, La mia battaglia, a Rudolf Hess che lo trascrive a macchina con una Remington portatile. Siamo nella fortezza di Landsberg, in Baviera. Trattato con i guanti, qui Hitler trascorre un anno, che è il periodo a cui si riduce la sua detenzione per il putsch di Monaco del 1923. Lo spettacolo di Stefano Massini presenta due punti di vista e li dispone uno dentro l’altro: quello di Emil Erich Kästner e quello di Adolf Hitler.

Kästner è un narratore di successo di racconti per bambini. Inviso al regime, viene condannato a non scrivere più e ad assistere agli autodafè di milioni di libri tra cui i suoi. Di Kästner Massini ci parla in una sorta di premessa metodologica dove emerge il parere di Kästner secondo cui Hitler non sarebbe andato al potere senza il Mein Kampf e i roghi dei libri non ci sarebbero stati se Hitler non avesse scritto quel libro, dato che le parole non sono solo inchiostro ma sono fatti. Sono pietre diceva Gesù Cristo.

Hitler… chi è stato? Film e documentari non hanno smesso di mostrarci l’aspetto esteriore. L’abbiamo visto arringare le folle. Ne conosciamo la gestualità melodrammatica, parossistica (che Massini rievoca in modo stilizzato), anche attraverso la parodia incommensurabile di Charlie Chaplin ne Il grande dittatore. Massini ce lo svela dall’interno, a partire dalle sue ossessioni fondamentali.

Non pronuncia i suoi discorsi. Non esamina un’opera composita come il Mein Kampf. Più che l’autobiografia Massini ci descrive un’autobiologia, calandosi nelle passioni e nelle ossessioni, nella lingua emotiva e mentale. Lo fa mediante l’iterazione isterica e ieratica, epica e assillante, variamente modulata, di locuzioni e domande come irrilevanza o non voglio diventare un impiegato o da dove si inizia per cambiare la Storia?, che costituiscono la lingua interna di Hitler, incombono su di lui come spade di Damocle, lo aizzano, scandiscono una vita e il ritmo dello spettacolo.

Passiamo, così, dalla disperazione di Braunau sull’Inn, dalla sua viltà, con le sue orchestrine e il padre che esalta la paga fissa di un impiego sicuro, dove trascorre infanzia e adolescenza, alla estraneazione di Vienna, la città fatua dei caffè-concerto e ripugnante delle periferie proletarie, dove, facendo il pittore di strada, vive gomito a gomito con i lavoratori e la loro penuria. L’estraneazione diventa rabbia, soprattutto a Monaco, dove s’immerge nella lettura di libri di mitologia germanica e dove vede e riconosce l’identità del nemico nel volto e nei nomi del corruttore, del parassita: l’ebreo.

E poi c’è la guerra, la Grande Guerra. La guerra che tutto cambia e con cui comincia il secolo breve. La guerra per Hitler è un’esperienza totale e inebriante. La guerra, sola igiene del mondo per i futuristi, per Hitler selezione dei migliori, decide chi merita di vivere.

Ci sono due epifanie in un panorama di frustrazioni. Quando Hitler, nel novembre del 1918, convalescente nell’ospedale di Pasewalk, davanti a una fila interminabile di feriti e mutilati, si sente il profeta di un risentimento che tramuta la rabbia in energia. L’umiliazione della resa si trasforma nel carburante per innescare la vendetta e il riscatto.

La seconda, quando una sera del 1919, in una birreria di Monaco, parla per la prima volta in pubblico e nonostante le dita gelate, scopre la sua attitudine oratoria.

L’anno dopo la fine della guerra, Hitler frequenta il Partito dei Lavoratori Tedeschi. Si annoia alle riunioni ma poi lui e il partito sfruttano la seduzione di massa che sgorga dalla sua voce. È l’inizio di una carriera di oratore che cambia la sua vita e quella del mondo. Il cerchio si chiude: da dove si inizia per cambiare la Storia? Da qui, dalla voce, dalla parola.

Come è stato possibile che Hitler abbia preso il potere, trasformando una democrazia in una dittatura razzista e brutale?

La risposta è complessa. Massini con la sua ricerca particolare sulla parola che risale alla scrittura della Lehman Trilogy, (Ronconi regista), ci immerge e ci irradia il potere di una parola essenziale, epico-formulare, emotiva. La capacità attoriale, la modulazione della voce, la gestualità rigorosa, il teatro di parola di Massini, insomma, dà parola al teatro della storia. Non è ornamentale la messa in scena: Massini recita su di un rettangolo bianco inclinato (arena della storia, teatro di una coscienza) che ricorda il monolite di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. Quello era nero e verticale ed emetteva un fischio insopportabile. Qui ci sono colpi di scena, esplosioni, vibrazioni possenti di musica elettronica. Libri crollano dall’alto, si aprono, si ammassano, si sparpagliano. Poi c’è una frantumazione di vetri, gli scuri vestiti di un ebreo, una valigia. Infine c’è il preludio dell’Oro del Reno di Wagner, il suo crescendo in una spirale fastosa con cui termina, in un lungo e meritato applauso, la prova epica di Massini.

MEIN KAMPF di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler
Scene: Paolo di Benedetto
Costumi: Joanka Micol Medda
Luci: Manuel Frenda
Ambienti sonori: Andrea Baggio
Produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana

Al Teatro Strehler di Milano dall’8 al 27 ottobre