Il mestiere del critico
UN RACCONTO ASPRO E ASCIUTTO
“La gabbia dorata”, un film di D. Quiemada Diez
Una stima fornita dal sito fortresseurope.blogspot.it (che tiene il conto delle vittime inghiottite dal mare nelle migrazioni che dal Nord-Africa puntano verso le cose di Lampedusa e della Sicilia) parla di circa 20 mila morti. Fuori da ogni calcolo, invece, il numero delle persone decedute nell’analogo esodo biblico che si verifica dall’altra parte del globo. Del flusso migratorio che dai paesi del Centro America punta verso gli Stati Uniti nessuno tira le somme, ma soprattutto nessuno ti soccorre e ti accoglie una volta arrivato alla meta. Al contrario, chi ha la “fortuna” di varcare il confine con gli Satets rischia di continuo l’arresto e l’espulsione, se non addirittura di far da tiro al piccione per organizzazioni xenofobe paramilitari, modellate in tutto e per tutto su quello che era il Ku Klux Klan.
Vincitore del 43° Giffoni Film Festival e Premio Gillo Pontecorvo nella sezione “Un certain regard” del 66° Festival di Cannes, La gabbia dorata dello spagnolo Diego Quemada-Diez è una produzione ispano-messicana che segue passo passo l’odissea di quattro adolescenti spinti dalla disperazione a inseguire un sogno di evasione dalla miseria più nera che li priva di ogni futuro se non quello di consumarsi giorno dopo giorno a rovistare fra cumuli di immondizia che perfino i corvi disertano.
Poco più che ragazzi, Juan, Samuel e Sara lasciano i quartieri poveri della capitale guatemalteca per attraversare il Messico e tentare di varcare il confine con gli Stati Uniti. Dall’altra parte c’è l’Eldorado, la Terra promessa, il sogno che resta tale anche dopo il risveglio. Lungo il cammino incontrano Chauk, un indio del Chiapas, che non conosce una parola di spagnolo, non ha documenti, ma che come tutti gli altri insegue il miraggio di una nuova vita. Accovacciato sul tetto di treni merci o a piedi seguendo il corso dei binari che puntano a nord, il quartetto va incontro a un avaro destino che opera feroci selezioni e concede miserevoli margini di spazio…
Diego Quemada-Diez è un intellettuale nel senso più esaustivo del termine, custode di valori e coscienza della società, divenuto tale attraverso una teoria della prassi iniziata con la convinzione che, come sosteneva Joseph von Sternberg, il cinema sia una scrittura fondata sulla fotografia. Quemada-Diez nasce infatti come fotografo diplomandosi in questa disciplina presso l’American Film Institute e maturando la sua esperienza al fianco di Alejandro Gonzales Iñarritu, Tony Scott, Oliver Stone e Spike Lee. Una maturazione che si sviluppa attraverso la convinzione dell’inscindibilità di estetica, etica e impegno politico, fusi nello stesso corpo. E proprio perché iscritto in questa linea La gabbia dorata può essere considerato un’opera che ha fatto sue le note distintive del neorealismo, caratteristiche che muovendo da un’esigenza di verità non esitano a mettere in luce le piaghe profonde di un contesto sociale afflitto da endemici malanni. Un modello che non è intercambiabile e tanto meno valido per tutte le stagioni, ma che richiede precise connotazione storiche e ambientali, addiritttura epocali, che ne consentano l’applicazione. Un linguaggio in sintonia con il suo tempo e con lo spazio che gli fa da palcoscenico, da questi stessi generato e senza i quali non avrebbe modo di articolarsi.
Nella Gabbia dorata il tempo è quello che stiamo vivendo e lo spazio è quella barriera fra Nord e Sud del mondo che nel confine fra Messico e Stati Uniti giorno dopo giorno polverizza sogni, disperde speranze, uccide illusioni.
Diego Quemada-Diez ha lavorato anche con Ken Loach (in Terra e libertà per la precisione) e da Ken Loach ha imparato una tecnica che garantisce la tessitura di un simile modello annullando ogni distanza tra la fiction e il reportage: attori non professionisti, niente teatri di posa ma loghi reali, luce naturale, abolizione di carrelli, zoom e gru, camera leggera come la Super16, riprese rigorosamente in sequenza così da rispettare l’ordine cronologico della narrazione. Di modo che il tutto restituisca un sapore di autenticità e assicuri una solida e convincente struttura drammatica.
Il risultato è una “nonfiction-novel”, un racconto che ha i tratti del documentario e i caratteri dell’inchiesta giornalistica muovendosi lungo la linea sottile che intreccia realtà e finzione. Con tocchi agghiaccianti nella loro denuncia, come quando i migranti sono fermati da rapinatori che li spogliano delle poche cose che portano con sé o presi in ostaggio da criminali che sottraendo loro i cellulari ricattano amici e parenti che vivono negli Stati Uniti chiedendo loro un riscatto. Peggior sorte tocca alle donne, rapite e sequestrate in massa, crudelmente destinate a nuove forme di schiavismo che si praticano attraverso la prostituzione forzata e il coinvolgimenti in siti pornografici dove la depravazione, la perversione e il sadismo si manifestano tramite brutali tormenti, fustigazioni e torture.
Tutto questo in un racconto aspro e asciutto, in cui non c’è soluzione di continuità fra immagini rubate dal vivo e ricostruzioni sceniche, in un film teso come una corda di violino, sovrastato dal mito degli States visti come il Paese dei balocchi (dove Pinocchio, il più fortunato di tutti, finirà a fare il garzone in un mattatoio), ma dal cui sottofondo traspare un autentico senso religioso che si incardina in una fede e in una speranza sempre perseguite. Come ribadisce il refrain di una canzone intonata dai migranti appollaiati sul tetto di un merci: “Abbiamo perso la strada, dobbiamo ritrovarla/ abbiamo perso la fede, dobbiano ritrovarla”.