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Enzo NATTA- La memoria, per Carlo Lizzani, regista e umanista

 

 

 

 

La memoria


 

PER CARLO LIZZANI

 

Regista e umanista

 

Quel gesto estremo ha sorpreso e lasciato sgomenti. Intanto perché Carlo Lizzani non aveva il carattere burbero, scontroso, da toscanaccio incallito, di Mario Monicelli che, di fronte alla scoperta di un tumore devastante, rispose: “Assì, vuoi togliermi di mezzo? E io questa soddisfazione non te la do”. Lizzani era riflessivo, calmo, ponderato nelle decisioni e mai cedeva alla collera o a impulsi incontrollati. Segno che qualcosa si è rotto in un meccanismo costantemente sotto controllo. Ecco perché il suo gesto si contorna di mistero e si proietta nel mistero stesso dell’esistenza. Che lascia perplessi, annichiliti e senza risposte.

Nato a Roma il 3 aprile 1922, aveva salito quei gradini che da semplice spettatore portano al più specifico ruolo di cinefilo e poi di critico frequentando il Cineguf (i circoli cinematografici dei Gruppi universitari fascisti) e, attraverso questo, approdando alla rivista “Cinema” diretta da Vittorio Mussolini, il figlio del Duce. Una fucina che non è soltanto culturale, ma soprattutto ideologica e politica. Nella redazione di “Cinema” aveva conosciuto e frequentato un gruppo di giovani critici: Pietro Ingrao, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Massimo Mida, tutti interpreti di una battaglia per il realismo che troverà il suo manifesto programmatico in “Ossessione“ di Luchino Visconti.

Il suo percorso, in quegli anni, è l’esempio di un passaggio dal fascismo all’antifascismo che si realizza attraverso la presa di coscienza di una generazione tradita, quel fenomeno storico che Mirella Serri ha inquadrato nei “Redenti” (Corbaccio) e prima di lei Ruggero Zangrandi in “Lungo viaggio attraverso il fascismo” (Einaudi). Un fenomeno che se in politica intende reagire a una rivoluzione incompiuta quale fu il Ventennio, nel cinema si oppone alla commedia dei “telefoni bianchi” o al filone letterario e formalista dei “calligrafici”, di Renato Castellani (“Un colpo di pistola”) e di Alberto Lattuada (“Giacomo l’idealista”).

La scuola di “Cinema” si rivelerà determinante nella formazione del mondo poetico di Carlo Lizzani, tutto orientato alla ricerca di una dimensione politica e sociale tale da farsi strumento idoneo a indagare la realtà e a tratteggiarla oltre il suo spesso ingannevole apparire. In questo modo, e attraverso questo metodo di indagine, Carlo Lizzani analizza e interpreta non solo la storia recente, ma anche la società contemporanea. Alla storia recente appartengono film come “Achtung! Banditi!” (il suo primo lungometraggio girato a Genova nel 1951 e che vede fra i protagonisti Giuliano Montaldo), “Il Gobbo”, “L’oro di Roma”, “Il processo di Verona”, “Mussolini ultimo atto”, “Hotel Meina”. Nel filone dell’indagine sociale, vista anche attraverso la deformazione fenomenologica del banditismo e della criminalità, si iscrivono opere come “Svegliati e uccidi”, “Banditi a Milano”, “Barbagia”, “Torino nera”. Sono, questi film, le sfide alle quali Lizzani non si sottrae, conscio che per rinnovarsi e progredire un paese e una comunità devono prendere atto dei propri malesseri e denunciare le piaghe che lo affliggono. Alcune delle sue opere sono impostate invece in cifra prevalentemente intimista (“Cronache di poveri amanti”, “La vita agra”, “Cattiva”) ed è proprio questo doppio registro che gli consente di penetrare a fondo l’animo umano e di servirsene come chiave per accedere al più vasto contesto di contrastati rapporti sociali.

Si veda per esempio “Celluloide”, che, nel raccontare il set di “Roma città aperta” di Rossellini osservandolo da dietro le quinte, riesce a fondere mirabilmente il quadro storico della capitale appena liberata con il permanere di forti tensioni che ancora non hanno rimosso l’incubo dell’occupazione nazista, con sentimenti che tornano prepotentemente a riassaporare la gioia di vivere, con nuove tendenze e aspirazioni che nella diversità manifestano l’eplosione della libertà. La grande storia della commedia umana, dunque, scritta a più mani. E tutte degne della massima attenzione.

Questa attitudine al confronto di più opinioni aveva sempre manifestato in Lizzani quello spirito critico che dalle giovanili collaborazioni a “Roma fascista”, il settimanale del Guf romano, e poi a riviste di prestigio come “Bianco e nero”, era proseguito nella sua “Storia del cinema italiano” (Parenti), in “Il cinema italiano” (Editori Riuniti) o in film documentari e film-inchiesta come “La muraglia cinese” e “Le facce dell’Asia che cambia”, opere nelle quali non aveva esitato a esprimere il suo dissenso nei confronti di certe distorsioni del socialismo reale. Dal 1979 al 1982 aveva diretto la Mostra di Venezia con polso sicuro e competenza, restituendole quel prestigio e quel ruolo che il vento del ’68 aveva disperso.

E anche in questa occasione aveva dimostrato lungimiranza di vedute aprendo le porte a tendenze spesso discordanti fra loro, convinto che proprio dal confronto potessero emergere nuove idee e nuove prospettive. Confermandosi uomo di dialogo, lontano da fazioni e settarismi, sensibile all’ascolto e alla valutazione di qualsiasi progetto gli fosse sottoposto .

Penso non gli dispiacerebbe affatto se dovendo scegliere un ricordo della sua immagine lo affidassimo alla scena finale del “Sole sorge ancora” di Aldo Vergano, in cui intepreta con fierezza e dignità il personaggio di don Camillo (del tutto casuale l’omonimia con quello di Giovanni Guareschi), il sacerdote condotto alla fucilazione dai nazisti perché accusato di aver aiutato i partigiani. Don Camillo procede a testa alta in mezzo a due ali di folla tremante e silenziosa. Con voce ferma e sicura il prete intona la litania dell’ “Ora pro nobis” e la ripete sempre più forte, fino a quando la folla impietosita gli risponde in un crescendo che sovrasta gli ordini urlati con voci stridule dai suoi aguzzini.

Immagine-simbolo di una straordinaria dignità mai venuta meno.