Il mestiere del critico
LA DIVERSITA’ DEL GENIO
“The accountant” (Il contabile), un film di Gavin O’Connor
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Se due individui dotati di talento – di ogni tipo, di qualsiasi settore – intersecano le loro vicende professionali, oltreché quelle esistenziali, si può star certi che ciò che ne esce risulta, nel più dei casi, una novità interessante. Questa considerazione ce l’ha suggerita il film di Gavin O’Connor The accountant (Il contabile) ove al servizio dello stesso cineasta compare l’eclettico sceneggiatore-attore-regista Ben Afflek che incarna il fulcro di un racconto dalle complesse, intrecciate diramazioni drammatiche.
Non insisteremo oltre sulla pluralità di risorse creative con cui Afflek è venuto alla ribalta dopo l’avvio subito prezioso del film Will Hunting (scritto e sceneggiato con l’amico Matt Damon) e la sequela di Oscar, riconoscimenti vari, fino alla precoce consacrazione come interprete e regista più che prolifico. Ora, con questo nuovo The accountant, ben coadiuvato dal dotato O’Connor, dà vita a un personaggio – appunto, il contabile del titolo – che aldilà di una traccia narrativa tortuosa ma appassionante, mette in campo la situazione segnata dalla sindrome allarmante dell’autismo e da una questione drammatica di torvo significato. Insomma, un thriller e insieme un apologo psicologico di intricato sviluppo.
Questa in sintesi la vicenda: fin dalla più giovane età Christian Wolf palesa le stimmate di una perniciosa affezione (in termini tecnici: un disturbo pervasivo dello sviluppo, considerato una forma dello spettro autistico “ad alto funzionamento”) a causa della quale viene educato in una clinica per bambini portatori della stessa debilitazione. Col passare degli anni dall’adolescenza alla prima maturità viene assiduamente assistito e ammaestrato dal padre tanto nell’acquisire una forza fisica inusitata, quanto nel potenziare in modo eccezionale le sue naturali facoltà intellettive, specie nella dinamica della sapienza matematica.
È così, quindi, che tra flash-back e andirivieni tra il passato e il presente – quando ormai adulto, “emancipato” da ogni complesso di inferiorità – Christian Wolf campeggia, intimidatorio e temibile, nel ruolo di espertissimo contabile abituale complice di organismi legali e più spesso illegali vanamente braccato dal fisco e dal tesoro americani. Anche se, di quando in quando, nel prosieguo del racconto affiorano ambigui scorci ove l’azione negativa dell’enigmatico Gregor si stempera in più rasserenanti digressioni.
C’è, in tutta questa fitta perlustrazione di fatti e misfatti immersi in un ambiente malavitoso, l’evidente intenzione di scavare, di scoprire quanto e come una pur privatissima odissea possa assumere la parvenza di una favola morale (ma non moralistica) proprio basata sugli scompensi di una vita predestinata dal caso, dalla bizzarria degli eventi. Una storia, in altri termini, che dall’episodio individuale si dilata – grazie all’azzeccato soggetto di Bill Dubuque – nella incursione psicologica di inquietante suggestione. Tanto da far dire al regista O’Connor: “Chris è rappresentato come un essere umano, con la sua dualità, non un freak o una figura tragica”, ma un uomo differente e basta. Niente di più, niente di meno.