Il mestiere del critico
LA CLASSE OPERAIA NON VA IN PARADISO
“Io, Daniel Blake” il nuovo film di Ken Loach
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Ken Loach superato di slancio il traguardo degli Ottanta anni, non ha esitato un momento nel riprendere, con assoluta coerenza, il discorso sempre praticato sulla tribolata condizione delle classi popolari in Inghilterra. Suoi sono i numerosi film dedicati a scorci significativi di ambienti operai e di vicende manifestamente tese a rivendicare risarcimento e giustizia per le desolanti situazioni di personaggi incastrati – si direbbe, inesorabilmente – nell’indigenza, nello spossessamento di ogni dignità.
E questo suo nuovo cimento sul tema di una socialità distorta, pervertita si intitola schematicamente Io, Daniel Blake proprio per significare che il carpentiere sessantenne con quel nome non è alcun eroe, né titolare di una patetica storia, ma piuttosto l’emblema di cose contingenti, quotidiane come la disoccupazione, la ricerca disperata di un lavoro, l’incomprensione di un apparato del Welfare che non soccorre minimamente chi è in stato di bisogno.
C’è nell’atteggiamento di Ken Loach verso il cinema una attitudine spoglia, pragmatica che di una traccia narrativa si serve (con l’aiuto dell’assiduo sceneggiatore Paul Laverty) per fare una puntuale argomentazione di dar conto di questioni, congiunture sempre a ridosso della realtà nuda e cruda in cui – a partire dalla malaugurata “era Tachter” – i ceti popolari di Gran Bretagna sono stati ridotti a una marginalità esistenziale del tutto derelitta. È proprio questa la parabola, prima grottesca poi tragica, che percorre, appunto, Daniel Blake, un carpentiere sessantenne di Newcastle, colpito da infarto, inizialmente aiutato dal Welfare e poi presto privato, per assurde ragioni, d’ogni sostegno, si ritrova, smarrito, a vagare tra uffici e disposizioni ermetiche pur di salvare qualche risorsa di una residua dignità.
Così, Daniel Blake, benché provvisto di una indomita cordialità, incappa, passo passo, nell’intrico delle procedure elettroniche, dei curricula, dei ricorsi interminabili, fino a perdersi, in un garbuglio di ostacoli insormontabili. Ed è giusto in questi intoppi che Daniel Blake interseca la storia, quanto e più drammatica della sua, di Kate, una povera donna, con due figlioletti a carico, sbalestrata da cinquecento kilometri di distanza nella mai vista Newcastle. Ma non è che Blake riesca in qualche misura a soccorrere efficacemente la sfortunata signora, anche se con la suo bonomia e ostinazione riesce perlomeno a destare la naturale solidarietà di altre persone segnate anche loro da problemi, difficoltà di analoga impervia.
Cannes 2016 ha tributato, per la seconda volta, a Ken Loach la Palma d’oro per Io, Daniel Blake. E molti critici o commentatori a vario titolo hanno argomentato che, forse, non si tratta del miglior film del cineasta inglese. A simile obiezione, si può anche accedere, senza perciò disconoscere il merito oggettivo, la probità coerente di Loach verso le tematiche di forte intento morale dei suoi racconti dalla parte dei lavoratori, delle condizioni davvero esasperanti delle classi popolari. In questo contesto, Io, Daniel Blake, trova una forte caratterizzazione dei personaggi maggiori da parte di attori della tempra di Dave Johns (Blake) e Hayley Squires (Kate) e di tutti i restanti interpreti.
Ciò che, peraltro, resta innegabilmente rilevante nel nuovo film di Loach è quel senso della sua inattaccabile solidarietà verso gli umiliati e offesi di sempre, anche perché, sostiene il Nostro: “Non è un caso che mi capiti di raccontare la classe lavoratrice, perché, se c’è un cambiamento nella società, è da quella parte che può venire”. Il non dimenticato Elio Petri prospettava sarcasticamente che La classe operaia va in Paradiso. Ken Loach è di diverso avviso: spera, profetizza che la classe operaia non vada né in paradiso né all’inferno, ma puramente, semplicemente in un mondo più giusto, più umano. Tutto qui.