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Sauro BORELLI- Guerra con suspense (“Il diritto di uccidere”, un film di Gavin Hood)

 

Il mestiere del critico

 


GUERRA CON SUSPENSE

“Il diritto di uccidere” , un film di Gavin Hood- Ultima interpretazione di Alan Rickman

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Venuto alla ribalta internazionale dieci anni fa con Il suo nome è Tootsi (miglior film straniero agli Oscar del 2006), il cineasta sudafricano Gavin Hood, realizzati da allora altri quattro film, approda ora agli schermi con il nuovo Il diritto di uccidere, sorta di rendiconto con suspense incorporata di un cruento episodio della guerra divampante dovunque tra eserciti di tradizionale impianto operativo e di bande di efferati terroristi attivi specialmente in Medio Oriente e in determinati territori dell’Africa Nera ove l’islamismo più radicale esplode (letteralmente) nei modi, nelle forme più sanguinose.

Particolarità esteriore di un film d’azione come Il diritto di uccidere è il fatto che al centro di un racconto dall’impronta documentaria dislocata tra il Kenia, Londra e gli Stati Uniti si staglia, autorevole e sapiente, la figura del colonnello-donna britannico Katherine Powell – una superlativa Helen Mirren – chiamata a determinare con risolutezza tutta autonoma la decisione di uccidere oppure no una famigerata terrorista in procinto di mandare ad effetto un ulteriore, catastrofico attentato-kamikaze.

Altra caratteristica del film in questione risulta, passo passo, l’incrociarsi dei vari responsabili nell’ordine di lancio di un “drone” in contrasto tra di loro se effettuare comunque il loro proposito o limitare gli effetti dell’esplosione, salvando il salvabile con il contenimento dei cosiddetti “danni collaterali” (e, in ispecie, risparmiando la vita ad una bambina capitata nel luogo dell’attentato) e così rispettando almeno formalmente le regole pure opinabili delle pratiche militari correnti.

Come si può constatare, dunque, una vicenda circoscritta a pochi ambiti claustrofobici ove, militari di alto grado (come appunto il colonnello Powell-Mirren), politici di vario ruolo ed esponenti dei governi tanto americano quanto inglese, si misurano di ora in ora, prima, sull’ipotesi di “catturare” semplicemente l’odiosa terrorista, poi, di colpo sulla sopravvenuta “necessità” di eliminare totalmente e sollecitamente la stessa persona. È qui, nel prolungato incalzarsi degli snodi psicologici e larvatamente morali espressi dai molteplici personaggi coinvolti nella drammatica questione, che prende progressivamente corpo una strategia narrativa serrata ove il thrilling si salda a una esposizione via via più tesa, angosciosa.

In particolare, il clou del racconto mirato sulla presenza casuale della bambina proprio nel fulcro del progettato lancio del rovinoso missile si dipana prima con lievi spostamenti dell’incombente esplosione, poi il ritmo della storia si fa precipitoso, a perdifiato e tutto si raccorda sull’imminenza e infine l’effettualità tragica dell’evento: l’esplosione si verifica, benché limitata a “danni collaterali” definiti. Ciò che non risparmierà la vita alla sfortunata bambina né acquieterà il rimorso dei militari comandati ad effettuare fisicamente il lancio del missile (anzi, di più missili) sul bersaglio predestinato.

C’è nel divenire di questi momenti in cui tutte le figure trascinate, anche loro malgrado e variamente consapevoli di compiere un gesto estremo, irrimediabile, una sensazione sempre avvertibile di allarme, di incontenibile apprensione. Una sensazione calzante di un caso limite dalla valenza metaforica.

Proprio perché, in buona sostanza, l’assunto del film, benché civilmente ammonitore, non rispecchia, mai e comunque, un approdo davvero razionalmente plausibile: né come motivazione di fondo né ancora meno come presunto “diritto”. Vale piuttosto, ieri come oggi, la decisa asserzione di Schiller (nel dramma I Piccolomini): “La guerra è un rozzo e violento mestiere”. E nient’altro.