Bianco Natale 2023/Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Neri Pozza, 2023
@ Lucia Tempestini, 7 dicembre 2023
Melville circoscrive la vicenda ansiogena e immobile di Bartleby – pubblicato in due puntate nel 1853 sulla rivista Putnam’s Magazine – fra le mura dello studio in cui un affaccendato legale newyorkese svolge la sua attività con l’aiuto di due copisti – Turkey e Nippers – e del fattorino Ginger Nut.
Visto che la mole degli incarichi aumenta, e con essa la quantità di contratti e documenti vari da redigere e trascrivere, l’avvocato si persuade ad assumere un terzo scrivano. La voce fuori campo del lawyer descriverà gli eventi successivi, a volte con toni accorati a volte lasciando trapelare un soffio gelido di angoscia.
Lo studio ci appare come uno spoglio microcosmo attraversato da clienti e colleghi del titolare ma separato dal mondo esterno, dalla vita, dalla luce e dall’aria. I rumori delle strade sono un’eco confusa, le sete lucenti delle dame a spasso un lontano bagliore colorato.
Le illustrazioni virate in seppia di Antonello Silverini ben raffigurano tube e barbe notarili e l’ambiente concentrazionario dell’ufficio, sulla cui soglia si materializza un giorno la figura magra e pallida del giovane Bartleby, che viene immediatamente assunto come terzo copista. Silenzioso e frugale – si nutre di un cent di biscottini allo zenzero al giorno – lavora in una stanzetta affacciata sul muro di mattoni di un edificio costruito dirimpetto. I due palazzi sono separati soltanto da uno stretto pozzo senza sole e senza cielo.
Bartleby è una figura indecifrabile, non lascia mai lo studio e sembra non avere un passato, né parenti, né amici. La sua vita consiste nel trascrivere contratti e guardare, sempre più a lungo, il muro che chiude la visuale.
L’annidarsi del giovane nella piccola stanza e il rifiuto graduale di compiere qualsiasi azione, opponendo alla più elementare delle richieste la cortesia elusiva e ostinata della frase I would prefer not it, precipita nella costernazione e nel senso di colpa le persone che lo incrociano senza riuscire a comprenderlo. La voragine del dubbio si spalanca davanti all’avvocato, poiché la materica “assenza” dello scrivano, la sua imperturbabile indifferenza, rendono fin troppo evidente la vanità dell’agire umano.
Sarà proprio l’inquietudine degli uomini spaventati e rabbiosi davanti alle crepe che il semplice non-essere del copista forma in un “ordine del mondo” basato sulla Legge anziché sulla giustizia cosmica, a dare inizio a una precipitosa frana destinata a travolgere Bartleby fino a condurlo in una cella delle Tombe, il carcere di Manhattan.
Le acque dell’implacabile racconto di Melville si chiudono sull’ultima esclamazione dell’avvocato, desolata quanto impotente.
A proposito di inutilità del quotidiano, dell’assordante indistinto brusio che suscita l’annichilimento umiliante del sé, vorrei consigliarvi di offrire il petto all’aculeo di In contrattempo. Un elogio della lentezza, Einaudi, librino colto e sornione di Gian Luigi Beccaria, finissimo nell’ironizzare con una punta di sgomento sull’ansia efficientista che ingolfa le nostre giornate e ci preclude le soste salvifiche, generatrici di pensiero. Il verbo fare ha da tempo sostituito il verbo riflettere, la frase accurata e analitica è stata soppiantata dall’annotazione sommaria e frettolosa, non di rado sgrammaticata, il lessico utilizzato dai più è ormai di una miseria desolante. Vivere sembra oggi una continua prova muscolare, dove le migliori energie interiori si disperdono in mille rivoli inutili, in vano cimento con gli altri e con se stessi.