La Bohème di Puccini a Bologna. Il testamento di un grande regista sperimentale del teatro lirico europeo: Graham Vick
@ Rinaldo Caddeo, 29 ottobre 2023
Giacomo Puccini presenta La Bohème al Teatro Regio di Torino, il primo febbraio 1896, con un tiepido successo che va crescendo, però, nel corso delle repliche e che verrà consolidandosi fino ai nostri giorni.
Il libretto, scritto da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, (tratto dal romanzo autobiografico Scenes de bohème di Henri Murger, uscito a puntate tra il 1845 e 1849), è ambientato nella Parigi di metà secolo XIX.
I suoi giovani personaggi sono un pittore (Marcello), un musicista (Schaunard), un filosofo (Colline), un poeta (Rodolfo), che conducono una spensierata vita di stenti, soffrendo festosamente fame e freddo, in una mansarda di Parigi. Ad essi si unisce Mimì, fioraia di fiori finti, rammendatrice e cucitrice.
Rodolfo e Mimì s’innamorano l’uno dell’altra al primo incontro. Il loro amore tormentato diventa il leitmotiv di tutta l’opera. Ci sono anche altri personaggi che si presentano nelle scene successive (Musetta, Alcindoro), quando lo scenario si sposta all’aperto, per le strade della città, davanti al caffè Momus, dove non mancano azioni di corale allegria, con i giochi e le grida dei bambini, per l’arrivo del Natale.
La conclusione è tragica: nell’ultima scena vengono rappresentati la morte per tisi (come per la Traviata di Verdi ma in un contesto sociale completamente diverso) di Mimì, il generoso ma tardivo e inutile soccorso degli amici.
In Italia bohème è stato tradotto nell’800 con il termine scapigliatura che trae origine, anche in questo caso, da un romanzo: La Scapigliatura e il 6 febbraio di Cletto Arrighi, pubblicato nel 1862 a Milano.
La Scapigliatura, in Italia, è diventata una sorta di prima avanguardia, tra gli anni ’60 e ‘80 dell’800, caratterizzata da irrequietudine, trasgressione, ricerca sperimentale e interdisciplinare tra le arti.
Per Puccini La Bohème è stata l’opera più autobiografica, più correlata al decennio degli anni ‘80 trascorso a Milano, prima del successo della Manon.
La novità rivoluzionaria è un ironico e brillante stile da conversazione (anticipato, in parte, dal Falstaff di Verdi/Boito) che delinea un racconto in musica e una rappresentazione di tranches de vie, secondo una poetica verista in cui non ci sono intrighi, colpi di scena o capovolgimenti. La stessa malattia di Mimì è un tema di fondo che si presenta dal suo ingresso in scena con un mini-svenimento (“che viso d’ammalata” dice Rodolfo) e viene sottolineato da molteplici indizi, anche con l’aria più famosa (“Che gelida manina”) e si ripresenta in modo sempre più esplicito nelle scene successive.
La novità di questa realizzazione di Graham Vick, rispetto alle Bohème da me viste finora, è la scenografia moderna (nel primo quadro c’è anche un frigorifero e un Colline che entra in scena con un casco di plastica da ciclista e una city-bike che appende a un gancio), la scelta dei vestiti (Mimì in blue jeans, Rodolfo con la felpa), le movenze, la mimica, i gesti, che sono quelli dei nostri giorni.
A partire da una condizione giovanile di vitale ma drammatica precarietà, è nitido e forte l’intento di dare un taglio interpretativo che coniughi il passato con il presente. Su di uno sfondo minimalista emerge con efficacia l’intensità della direzione musicale di Michele Mariotti, con il dinamismo, gli stacchi e i silenzi giusti, che danno un’impronta nuova alla musica di Puccini e alle parole di Giacosa-Illica.
Del resto anche per Puccini l’ambientazione e le tematiche erano quelle del suo tempo. Nessuno scandalo, quindi, per questo ennesimo aggiornamento del vulcanico Graham Vick. Direi, anzi, che in questo caso l’ammodernamento risulta naturale: non c’è una collisione violenta tra testo-canto da una parte e nuova ambientazione dall’altra ma un incontro che arricchisce di significati l’opera.
Lo shock, il colpo di genio registico, che dà un senso retroattivo a tutta l’opera, è assestato alla fine. Questo finale estrae la paura per la malattia di Mimì, manifestata e ribadita da Rodolfo precedentemente, in particolare nel terzo, penultimo, quadro, quello raffigurato da un paesaggio di muri scrostati, graffiti di scheletri, in cui si dispiegano, dietro una rete di ferro, traffici anche di droga. La dilata. La trasforma in panico. Alla fine tutti scappano di corsa da una porta, terrorizzati davanti alla morte di Mimì. Mimì rimane da sola, morta, coperta da un lenzuolo, (le scarpe rosse accanto), per terra, nel vuoto di una stanza vuota. È una fuga emblematica che diventa la morale, una nuova morale della fiaba.
È un finale sconvolgente, frutto di una scelta clamorosamente innovativa rispetto alle regie precedenti, che mette in risalto la solitudine di Mimì ma anche quella degli altri bohemien, buontemponi, allegri e temerari davanti alla vita, ma inetti, impauriti e vulnerabili, davanti alla morte.
Graham Vick è morto due anni fa di covid. Questa regia è una sorta di testamento di una vita dedicata alla ricerca sperimentale e a un’idea di teatro lirico che intende essere attuale per essere aperto a tutti anche alle nuove generazioni che spesso sono lontane dal teatro, soprattutto da questo tipo di teatro.
In questo caso, poi, sia i musicisti, sia i giovani cantanti ce l’hanno messa tutta e si sono meritati per l’applicazione e per la bravura, i lunghi applausi ricevuti a scena aperta e alla fine dello spettacolo.