Un Paese in continua trasformazione, che non cambia mai
@ Amedeo Ansaldi, 25 gennaio 2023
Come sottolinea la locandina di questa Lettura clandestina – atto unico ‘per voce e contrabbasso’ della durata approssimativa di un’ora, nel quale Fabrizio Bentivoglio si è cimentato con la consueta, consumata professionalità presso il Teatro Maggiore di Verbania – Ennio Flaiano è ricordato ancora oggi soprattutto (complici anche i social network) in quanto “facitore di aforismi fra i più evocati”, espressione di una visione della modernità amara e disincantata, lucida e insieme eccentrica:
“L’uomo che conduce una vita indegna deve esprimere sempre propositi morali.”
“Il tiranno più amato è quello che premia e punisce senza ragione.”
“L’evo moderno è finito. Comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato.”
“Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.”
“I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.”
“Uccidersi era una buona soluzione nelle epoche in cui il suicidio era rispettato come protesta o ammissione di sconfitta. Oggi non significa più niente. Ci si ammazza per disturbi nervosi.”
“C’è gente che eredita la fede come eredita i terreni, il casato, i titoli nobiliari, il denaro, una biblioteca e il castello. Fede per censo, ereditaria.”
“La morte ha la faccia di certe signore che telefonano al bar col gettone: e a un certo momento, senza smettere di telefonare, vi fanno un cenno di saluto e di sorpresa.”
“Stanco dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, lo scienziato si dedicò all’infinitamente medio.”
Ma Flaiano, che nel Taccuino del marziano e in Don’t forget si colloca indubbiamente nel solco degli aforisti ‘malpensanti’ di ascendenza leopardiana, fu anche scrittore fra i più eclettici, autore di diverse altre opere: un unico romanzo, scritto dietro commissione del mentore e maestro Leo Longanesi, Tempo di uccidere, ambientato nell’Africa coloniale italiana, della quale egli aveva esperienza diretta, vincitore della prima edizione del Premio Strega; vari racconti lunghi (da ricordarsi almeno Adriano e Melampus); diverse estrose miscellanee (raccolte di aforismi, raccontini, epigrammi, moralità, canzonette, elzeviri, limericks, fra le quali anche il suo libro più noto, Diario notturno); pièces teatrali, non sempre fortunate (Un marziano a Roma; La conversazione continuamente interrotta); infine felici sceneggiature cinematografiche, in particolare quelle di diversi film di Fellini, fra cui, celebri, I vitelloni, La dolce vita, 8 e ½: tutti lavori con i quali compì un’inimitabile carriera di “scrittore e giornalista, battutista impeccabile, caustico osservatore del costume nazionale dall’immediato dopoguerra fino agli anni del boom”; “un talento come sbriciolato in tante schegge preziose” che illustrava in un “crocevia di generi […] la crisi di valori e di autenticità” propria del suo tempo (Renato Minore).
La solitudine del satiro, da cui è tratta appunto la Lettura clandestina di Bentivoglio, appartiene alle opere postume dello scrittore pescarese. Gli agri umori dello scrittore vi trovano piena e puntuale espressione.
Il libro non segue un preciso ordine cronologico; i testi sono piuttosto raggruppati per argomenti.
Nella prima parte (I fogli di via Veneto) è tracciato l’efficace, caustico affresco di una ‘società del caffè’ (quella esemplare, “sempre più festaiola”, di via Veneto, nella quale sarebbero stati ambientati i capolavori felliniani) in una Roma dove “gli scandali scoppiano con la violenza dei temporali d’estate” e si può incontrare la più varia umanità, accomunata dalla melensaggine e dal conformismo delle ambizioni: giovani spiantati, pieni di imprecisate speranze per il futuro, che vagano tra la folla nella speranza di trovare un lavoro, un prestito, un amico… un’amante; aspiranti scrittori alla ricerca di una buona raccomandazione per pubblicare le opere, sovente mediocri, del loro ingegno; fotografi in eterno agguato per immortalare le non poche celebrità di passaggio e coglierle in situazioni imbarazzanti o scabrose; “ragazze che hanno varcato l’oceano per tentare”, spesso deluse, “la carriera dell’attrice nel clima della dolce vita.”; pittori che imbrattano le tele senz’ombra di pudore, consci che è loro tutto consentito, che in quel clima di preteso risveglio culturale il pubblico accetta supinamente qualsiasi ‘esperimento artistico’, per estemporaneo o velleitario che sia, ché ormai “il bohémien è riconosciuto dallo Stato” in via ufficiale e il popolo italiano genera più artisti che ragionieri o geometri, con le conseguenze che ne derivano; intellettuali che spacciano la loro noia per indignazione morale e per i quali la libertà è semplicemente d’ingombro – se nessuno cerca di togliergliela; e dove si intrecciano ad ogni angolo fitte conversazioni basate su una continua, fasulla sorpresa: una civiltà della sensazione, nella quale, più che vivere, ci si esibisce e tutti applaudono, senza sapere che cosa o chi, fra scene e atmosfere da basso impero.
In questa moderna Babilonia, tutt’altro che sentina di ogni vizio – come, per un malinteso che sfuggiva ai più, venne rimproverato a Flaiano di aver rappresentato la capitale – l’idea stessa del peccato sbiadiva, diventava un logoro e stantio retaggio del passato: Roma degradata a una metropoli dallo spirito provinciale, in cui, al massimo, si può sperare di morire “in odore di pubblicità”.
La stessa prostituzione, in questa Sodoma decaduta, ha subito il destino sconfortante di essere ormai un fenomeno che suscita più l’interesse dell’economista, che del moralista. Tutto – anche il sangue, i delitti, le stragi – diventa spettacolo, gioco, motivo di cronaca brillante, fino ad arrivare all’intervista sensazionalistica all’assassino, scoop suscettibile di lanciare la carriera di un giornalista.
Flaiano canta, ancora, “l’avvento dello Stato radiotelevisivo, che ha sostituito il vecchio sistema”: uno “Stato che regola l’ozio della nazione dopo essersi invano provato a regolarne il lavoro”, e la coerenza lo costringe allora a chiedersi perché non si pensi finalmente di “sostituire l’Inno di Stato con un ballabile.”
Un’intellighenzia fasulla esercita il proprio incontrastato dominio sugli ambienti culturali. Emerge, con forza, nell’autore, la nostalgia per quei tempi nei quali “la parola problema non veniva usata, se non dai matematici.”
Moderni Faust pronti a dannarsi l’anima per non soccombere alla noia, noi viviamo nel secolo degli interrogativi futili e insulsi, della conversazione a ogni costo. Qualsiasi evento o fenomeno è bene accetto, purché ci strappi alla noia. Così, anche una lite fra due automobilisti in strada si trasforma in un pittoresco diversivo, una sfida fra due lottatori goffi e improvvisati che suscita la divertita e un po’ morbosa curiosità dei passanti.
La frequentazione dell’ambiente cinematografico conferma del resto Flaiano in certe sue ormai radicate disillusioni e lo pone in contatto con personaggi che incarnano compiutamente i tempi nuovi, uno per tutti il produttore che deplora che di un libro di successo come I promessi sposi – con personaggi indimenticabili come don Rodriguez o l’Innominabile – non sia stato scritto un seguito, sul modello dei sequel cinematografici. Dal momento che si rinuncia a battere il ferro finché è caldo, conclude, stucchevole interrogarsi sulla crisi del libro e la flessione della lettura presso il grande pubblico.
In altre pagine affiorano i temi più seri dell’attualità internazionale.
Nei giorni tragici della rivolta d’Ungheria Flaiano non può non sgomentarsi alla lettura di certi articoli de L’Unità contro i ‘teppisti controrivoluzionari’: agghiaccianti “come un boia che racconti storielle allegre.” Né mancano battute impietose su un filosofo come Sartre, insonne vessillifero della sinistra, stalinista di ferro, che “passa l’esistenza a entrare e uscire dal partito comunista”, maestro nel “ragionamento del cane dell’ortolano, che detesta i cavoli ma pretende che nessuno li tocchi.”
Vi sono anche passaggi in cui vibrano accenti commossi (il ricordo di vecchi amici come Vincenzo Cardarelli e il pittore Amerigo Bartoli, inseparabili e in continua, stizzosa polemica fra loro, o l’ultimo saluto a Vitaliano Brancati), e intuizioni sui grandi temi della vita, per es. questa, occasionata da un lutto pubblico, la scomparsa di un noto presentatore televisivo:
“Mette più dubbi sull’immortalità dell’anima la morte di un Mario Riva che la morte di un Einstein, di un Benedetto Croce, di un Thomas Mann, che continuano a vivere nelle loro opere”,
oppure risposte acute e solo apparentemente paradossali date a giornalisti nel corso di tante interviste: “«Lei crede che la televisione abbia abbassato il livello culturale del pubblico?» «No, credo che abbia abbassato il livello culturale degli intellettuali.»”
Flaiano fu tra i primi a preoccuparsi del degrado ambientale in Italia; evidente lo sconforto di fronte al deturpamento di tanti paesaggi che ancora aveva fatto a tempo a vedere incontaminati, quali la spiaggia di Fregene, un arenile di 4-5 km, ridotta a un immondezzaio pubblico dall’inciviltà dei bagnanti: ovunque barattoli, bidoni, bottiglie, giocattoli di plastica, cassette coi chiodi, pagine di giornale svolazzanti… Del resto, ormai “le cose che bisogna tenere pulite, anzi lucide, sappiamo tutti quali sono: i pavimenti, i mobili, la macchina.”
Flaiano estende il suo pessimismo alle nuove generazioni; denuncia la futilità di tanti ideali, fintamente anti-borghesi, di una gioventù apparentemente contestataria, secondo la quale la società dev’essere sì rifondata: a partire dal vestiario.
E neanche suppone, o solo spera, che, caduto il fascismo, ci si stia impegnando seriamente contro le secolari disparità sociali, anzi enuncia una verità universale e sempre valida – o comunque sempre applicata – per cui “i ricchi vanno aiutati, abbiamo già troppi poveri”, anche nel ricordo di Leo Longanesi che, con la sua lingua velenosa, aveva segnalato come “in Italia, i fascisti siano una trascurabile maggioranza.”
Nel suo reading, doveroso e riverente tributo allo scrittore abruzzese, Fabrizio Bentivoglio ha privilegiato quei brani che si legano fra loro soprattutto per la trattazione degli inveterati difetti nazionali, condotta in termini talvolta fin troppo espliciti: quelli nei quali il pensiero dell’autore si esprime in modo più scoperto – una scelta peraltro apprezzata dal pubblico in sala e premiata alla fine dello spettacolo da convinti, calorosi applausi.
La selezione operata da Bentivoglio rievoca episodi e aneddoti dal significato più trasparente: l’ironica e amara lettera al sindaco da parte del cittadino che ha finalmente compreso secondo quali (dissennati) criteri si costruisce una strada in un quartiere nuovo della capitale; la visita presso un medico che afferma di aver letto e ammirato tutti i suoi libri e lo chiama reiteratamente signor Pagliano; la parabola rivisitata del figliol prodigo, prototipo e paradigma di tutti i figli di papà, un tipo umano non infrequente nel Bel Paese; la cena sorprendentemente informale con il presidente Einaudi e altri commensali presso il Quirinale, sotto lo sguardo accigliato del maggiordomo, uomo nel cui corpo gigantesco si agita un animo decisamente meno grande, incapace di nascondere la disapprovazione per le ripetute infrazioni all’etichetta; il dialogo fra due sceneggiatori abbastanza svogliati, ma in cerca di ispirazione, che osservano le ragazze che passano per via nel tentativo di immaginare la storia della loro vita, riplasmandola, un po’ meschinamente, in ossequio alle esigenze professionali; la folla che idolatra se stessa e accoglie solo eroi alla sua portata (un es. per tutti: il Duce da taluni rimpianto); per il resto, Flaiano lascia ad altri (intellettuali, sociologi, psico-analisti) il compito di individuare le cause dei fenomeni: lui si accontenta di subirne gli effetti.
Nella non facile impresa di restituire al pubblico un autore impegnativo e per molti versi sfuggente, Fabrizio Bentivoglio è affiancato dal valente contrabbassista Ferruccio Spinetti (ex-Avion Travel) che esegue musiche evocative, composte da autori diversi e risalenti a diverse epoche, non senza il ricorso a loop preregistrati sui quali suona dal vivo, talvolta improvvisando, sì da rendere “virtualmente unica ciascuna replica.”
Per Bentivoglio l’occasione di cimentarsi in questa prova è stata offerta, ovviamente, dal cinquantenario della scomparsa di Flaiano, ma la scelta non ha motivazioni solo contingenti:
“La lettura è ‘clandestina’ allo stesso modo in cui lo è stato, a ben considerare, Flaiano stesso, che finché era a bordo della nave insieme a noi, nessuno sembrava notarlo. Ci si è accorti di lui soltanto quando è sceso”.
L’attore ha voluto sottolineare soprattutto gli aspetti ‘profetici’ del libro di Flaiano, quelli che, seppur a distanza di mezzo secolo, ci riconducono al presente.
“La proposta di leggere La solitudine del satiro non è altro che l’invito a condividerne le sfumature più preziose, sia in termini poetici, sia di scandaglio del nostro animo, dimostrando che le parole di questo «moralista laico in grado di travestirsi da gran frivolo per far intendere le cose più serie», come lo definì Arbasino, ancora oggi ci parlano e non solo: ci dicono cose che ancora ai nostri giorni pochi sono riusciti a dirci con una simile chiarezza. […] L’intento della messa in scena è, attraverso lo sguardo di Flaiano su quell’Italia di cinquant’anni fa, poter sbrogliare il filo della nostra vita italiana e arrivare a capire meglio anche questa Italia di oggi.”
Bentivoglio ha scelto le pagine dalle implicazioni più evidenti, in qualche modo esemplari, che prefigurano e aiutano a comprendere anche l’Italia di oggi: un Paese in continua trasformazione, che non cambia mai.
LETTURA CLANDESTINA
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