Il cappone sgozzato. Breve storia del “do di petto”
@ Antonio Castronuovo, 1 gennaio 2023
Arduo impegno per la voce di soprano è il fa sovracuto che il perfido personaggio della regina della notte deve prendere nell’aria Der hölle rache del Flauto magico di Mozart, e per di più durante un’ampia tessitura di note assai alte e punteggiate. Per eseguirla è necessario possedere agile estensione, essere cioè un ottimo soprano di coloratura: poche cantanti possono farlo senza danneggiare la voce. Anche nel campo tenorile esiste lo scoglio: il do acuto posto un’ottava sopra quello centrale, definito con sigla do4 ma per fama «do di petto», termine che spiega bene di cosa si tratta: una nota emessa a voce squillante, con il torace che agisce da potente mantice.
Quella nota appare nel Guglielmo Tell di Rossini, nella cabaletta Amis, amis secondez ma vengeance cantata dal personaggio di Arnoldo: il pezzo contiene ben sei Do4, e colpisce che anche qui, come per la mozartiana regina della notte, si tratti di un canto di vendetta. La prima esecuzione fu a Parigi il 3 agosto 1829, quando il ruolo fu interpretato da Adolphe Nourrit, primo tenore dell’Opera, che utilizzò l’emissione in “falsettone”, tecnica laringea di timbro androgino che garantiva comunque buona omogeneità di emissione. Ma il fatto singolare accadde quando l’opera giunse alla primo allestimento in Italia, il 17 settembre 1831 al Teatro del Giglio di Lucca. Per il ruolo di Arnoldo l’impresario aveva pensato di impiegare in un ruolo en travesti il contralto Rosmunda Pisaroni, ma fu poi ingaggiato il tenore francese Gilbert Duprez, voce di scarso successo in patria, impostata negli acuti sul falsetto. Ma quella sera a Lucca, in uno slancio attuato per guadagnare virilità vocale e aggiungere drammaticità all’interpretazione, Duprez emise per la prima volta nella storia il do4 non in falsetto ma con voce piena. L’impressione destata nel pubblico accorso alla prima fu di una massa fonica nettamente più spessa del registro falsetto che sembrava giungere “dalla testa”, come se la nota fosse prodotta da un potente mantice toracico: era nato il “do di petto”, e con esso la figura dell’Heldentenor, del romantico tenore eroico che si assunse il compito di eclissare la delicata vocalità del Belcanto a favore dell’Affondo. La nuova vocalità s’impose, toccando un vertice col do4 del tenore Baucardé nel Trovatore verdiano, paradossalmente non presente in partitura ma legittimato dagli abbellimenti estemporanei, e approdando infine a Pavarotti, monarca della nota pettorale.
Per una testimonianza di prima mano di quell’episodio, cosa di meglio delle memorie di Duprez? Le pubblicò nel 1880 a Parigi col titolo Souvenirs d’un chanteur, e da quelle pagine possiamo trarre quel che accadde. Appena giunse a Lucca gli fu consegnata la sua parte, in cui s’immerse con curiosità ed emozione. E ciò che provò fu davvero singolare: all’ammirazione per la musica di Rossini si aggiunse l’inquietudine per la responsabilità artistica che stava per assumersi. Molti erano i punti che rientravano nella facoltà dei suoi mezzi vocali, ma alla fine di un’aria che, soppressa per Parigi, era stata ripresa per Lucca, vide un passaggio che terminava con una nota che lui non aveva mai tentato di raggiungere e gli si drizzarono i capelli: «Di colpo compresi: quegli accenti mascolini, quelle grida sublimi, rese con mezzi mediocri, non erano altro che un effetto mancato, e pertanto ridicolo. Per porsi all’altezza di quella energica creazione, era necessaria la concentrazione di tutta la volontà, di tutte le forze morali e fisiche di colui che se ne faceva interprete». Ma Duprez, posando lo spartito, fu colto dalla certezza di potercela fare: «Ecco come trovai quel do di petto che mi valse, a Parigi, tanto successo, forse troppo; perché, infine, cos’è un suono se non un modo di esprimere un pensiero?». Alla fine, il successo dell’opera a Lucca fu enorme, e grande l’intima soddisfazione del tenore.
Quel che però Duprez non dice è che il parto della nota era avvenuto con uno sforzo immane: chi fu presente all’evento ricordò che nell’emettere la nota, il tenore aveva proiettato la testa all’indietro, le vene del collo gli si erano gonfiate a dismisura e il suo viso aveva assunto un’orribile smorfia paonazza. In altre parole, un grido abbastanza inelegante, da Rossini definito «l’urlo di un cappone sgozzato», tanto che quando tempo dopo Duprez andò a visitarlo nella villa di Passy, Rossini lo pregò di lasciare «il suo orribile Do fuori la porta». Ma il massimo disastro prodotto da quella nota fu il rimpiazzo di Nourrit come primo tenore dell’Opera di Parigi da parte di Duprez. Nourrit se ne venne in Italia, cantò in qualche opera ma alla fine entrò in depressione e un giorno si gettò da una finestra di un albergo di Napoli: fu la prima vittima concreta del do di petto.