Cinema italiano
CHI INVERTIRA’ LA ROTTA?
Domande estive, mentre incombe l’autunno
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Si intitola L’Intrepido (come la vecchia testata di un giornalino per ragazzi) il più atteso tra i film italiani alla Mostra di Venezia. Non solo per la regia di Gianni Amelio dopo l’apprezzato confronto con Albert Camus, ma anche per il simbolico soprannome del protagomista (Antonio Albanese) che incarna un personaggio controcorrente: l’italiano vero (come quello della canzone di Toto Cutugno), che non si piange addosso, non si dà per vinto, ma si rimbocca le maniche.
L’ “Intrepido” è uno che non soccombe rassegnato alla crisi e che si offre come “rimpiazzo”, pronto a sostituire chiunque per un motivo o per l’altro si assenta per qualche ora, magari per la giornata intera, dal posto di lavoro. Un uomo per tutte le stagioni e tutte le necessità.Ai tempi della Grande Crisi e del New Deal, Franklin Delano Roosevelt diceva che i suoi migliori agenti nell’azione di propaganda che spronava gli americani a darsi da fare erano Topolino di Walt Disney e i personaggi dei film di Frank Capra, Gary Cooper o James Stewart che fossero. Ce la farà Antonio Albanese, anche se a orario ridotto, a emulare i suoi illustri predecessori?
Le premesse non sono confortanti se si pensa che, nonostante un doppio riconoscimento a Cannes, Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ha penato non poco a trovare una distribuzione che gli consentisse di immettersi su un mercato ridotto allo stremo in un contesto a dir poco avvilente e tragicomico all’insieme. Mentre il cinema italiano è in fermento per i tagli fino all’osso (dimezzamento del tax-credit e riduzione del Fondo unico per lo spettacolo), Enrico Letta e il ministro dei Beni Culturali Massimo Bray giocano a scaricabarile asserendo che i tagli sono bombe a scoppio ritardato, esplose ora ma innescate tempo fa. Ma state tranqulli, aggiungono, perché con la legge di stabilità si invertirà la rotta. Sarebbe da crederci, se dalla Commissione Bilancio della Camera non arrivasse la doccia fredda che le risorse sono finite e che, ammesso ci siano, sarebbero insufficienti.
Contro tagli e licenziamenti il cinema di casa nostra si ribella. A Roma (50 sale chiuse negli ultini anni), otto esercizi storici hanno scioperato, il presidente del Centro Sperimentale ha minacciato le dimissioni, Marco Bellocchio ha provocatoriamente annunciato che passerà al teatro e gli autori dissotterrano l’ascia di guerra.La politica dei tagli indiscriminati è un vulnus ai valori del pluralismo, della libertà di espressione di tutta la progettualità culturale, ma ancor più grave è la mancanza di una cornice organica che contenga un progetto innovativo in grado di andare oltre il contingente e impostare il domani.
Non lamentiamoci allora se il nostro cinema boccheggia e i prodotti hollywoodiani invadono il mercato estivo. Il fatto è che, pur con i prodotti commerciali, con l’evasione e con il consumo più sfrenato, Hollywood sa tenere d’occhio una realtà soltanto apparentemente disattesa e strizzare l’occhio al grosso pubblico, richiamandolo sotto sotto ad attenzioni e responsabilità maggiori. Dietro il trionfo dei supereroi della Marvel, dietro il Superman dell’Uomo d’acciaio e i umetti di The Lone Ranger, dietro un’overdose di spettacolarità sbalorditiva, di effetti speciali e di attrattive extrasensoriali come in Pacific Rim e in World War Z, metafore di terrori quotidiani cresciuti in batteria, c’è un inconscio desiderio collettivo di protezione da una minaccia costantemente presente (il terrorismo, l’Afghanistan, i missili nord-coreani, l’atomica iraniana), dalla cospirazione e dal tradimento (dallo scandalo Datagate in seguito alle dichiarazioni di Edward Snwoden che hanno aperto il sipario su una gigantesca operazione di spionaggio con cimici piazzate dalla Cia nelle ambasciate di Paesi alleati, al caso Bradley Manning, il soldato reo confesso di essere stato la talpa Wikileaks e di aver passato 700 mila documenti top-secret all’organizzazione di Julian Assange).
La forza del cinema americano non è soltanto l’organizzazione industriale e la potenza economica, ma soprattutto quella di saper farsi interprete del suo tempo, di un mondo complesso e spesso indecifrabile per tradurne in immagini angosce e incertezze, deliri e contraddizioni che sanno restituire la commedia dell’assurdo quotidiano.
Fino a contraddire l’Heidegger degli ultimi anni, che ripeteva spesso: “Ho rinunciato a capire il mondo. Mi arrendo!”