Chi ha paura di Virginia Woolf?: un dramma scomodo, che ci rende voyeurs delle dinamiche intime di una coppia disfunzionale
@ Sofia Sartori, 06-03-2022
Chi ha paura di Virginia Woolf? è un’opera che inquadra uno spaccato di quotidianità di una coppia borghese americana di inizio anni ’60. Una combinazione di individui, che dà origine a un’esistenza familiare fuori dalle convenzioni sociali dell’epoca e dei buoni costumi della facoltosa società dell’Ivy League universitaria statunitense.
Martha e George, i due curiosi personaggi protagonisti della pièce, non fanno più parte, infatti, del contesto prodotto dal boom economico; essi non hanno due figli educati da una madre casalinga, sempre sorridente e dagli alti valori morali, e un padre con una carriera invidiabile – teatro familiare protetto dalle mura di una villa linda e impeccabile, edificata in un clima di illusoria perfezione. Al contrario, durante l’opera, in un violento e scomodo gioco al massacro – per lo spettatore e per la seconda, più giovane, coppia in scena, Nick e Honey –, i due scoprono lentamente e sempre più crudelmente, persi nella loro passione malata, le falle, gli errori, o quello che essi considerano tali. In effetti, chi può dire cosa sia giusto o sbagliato?
È necessario, in questo caso, entrare nella prospettiva dei due protagonisti, i quali giudicano vicendevolmente le proprie vite, a seconda che rientrino o meno nel contesto in cui si ritrovano a vivere, un ambiente questo, che è, forse, l’unico che essi conoscono; e da qui deriva il loro fallimento, l’impossibilità di essere felici perché non corrispondenti alle rigide regole della comunità e, da questo stesso leitmotiv dell’opera viene anche il titolo.
Difatti, la scrittrice Virginia Woolf rappresenta una rottura nella visione della vita domestica della sua epoca. Lei è considerata ispiratrice delle correnti femministe novecentesche proprio per aver ucciso la figura della donna considerata come “l’angelo del focolare”. È un nome il suo che rappresenta, in questo dramma, un nuovo e diverso modo di agire, di affrontare la vita, che può essere, come vediamo nelle 2 ore e 40 di spettacolo, quello di una moglie, che come Martha non ha figli, è disinibita e ha intenzione di godersi la vita e un marito che, come George, può non avere fegato, non essere socialmente spigliato e per questo non arrivare all’apice della sua carriera.
Il bizzarro modo di condurre la loro esistenza è visto negativamente dagli stessi due protagonisti, i quali, non accettandolo, ne hanno paura, in quanto terreno ancora da scoprire e non praticato dai loro conoscenti. Diverse sono, dunque, le accezioni di fallimento; un esempio è la fine del primo atto, momento in cui George legge, ad alta voce, in maniera profetica, da un volume che tiene in mano, che l’occidente crolla sotto la sua stessa morale, una frase universale, la quale, non velatamente, si riferisce al loro caso particolare. Martha e George hanno paura, di conseguenza, di Virginia Woolf, come ci rivela lei nel finale e questo sfocia nel continuo “grattare il midollo” l’uno all’altra che essi hanno sempre praticato e che viene messo in atto durante tutta la durata dello spettacolo.
Come scritto nelle righe precedenti, il sentimento di inadeguatezza in cui vivono contribuisce a creare un ambiente malato, nel quale regnano gesti folli, al limite della violenza e l’alcolismo.
Non a caso, la scena è inizialmente dominata, in questo adattamento di Latella, dal colore verde, che per Artaud rappresentava la malattia e ricorda, nell’immaginario collettivo, i sintomi di qualcosa di poco salubre. Durante i tre giochi inventati e discussi dalle due coppie, infatti, si rivela quanto sia disfunzionale l’amore tra i due protagonisti più anziani, i quali, una volta arrivati al culmine dei loro litigi, utilizzano l’atto sessuale per placare e interrompere, il prima possibile, la caduta nel baratro della vergogna davanti agli ospiti.
Si fanno più riferimenti alla malattia mentale vera e propria, alludendo a George come al possibile squilibrato. Lui ammette, fra le righe, questo suo eventuale lato nascosto nell’aneddoto, raccontato a Nick, del ragazzino pazzo che ha ucciso la madre, e spiegando la trama del suo secondo romanzo – entrambe le storie paiono autobiografiche -, fino ad arrivare ai colpi di pistola, usati come minaccia.
Palese e sempre presente, invece, è l’alcol, il quale striscia in sottofondo, a suon di bicchieri vuoti. Una scelta importante di Latella è stata quella di togliere completamente la presenza effettiva del liquido lisergico, che si palesa solo nella scena in cui, per la prima volta, viene spalancato l’armadio, mostrandoci il suo vero contenuto, ossia i liquori. Tutti i bicchieri vengono tirati fuori e vi si versano esplicitamente delle bevande alcoliche, per finire in giravolte ubriache.
L’ossessione di Martha e George per i figli, che culmina nella creazione di un pargolo o “mascalzoncello”, come dicono loro, immaginario, da tenere per sé stessi – come conferma della loro vergognosa situazione di coppia sola – e poi fatto morire nelle ultime scene, e per la carriera si riflette nella coppia più giovane, la quale è spettatrice degli orrori generati dalla follia a due dei coniugi più adulti, e inconsapevolmente mostra loro quello che potrebbero diventare in futuro, visto che gli obiettivi esistenziali appaiono sovrapponibili.
L’atmosfera che si crea è di disagio costante per chi guarda, e si ha l’impressione di essere fuori posto durante l’intera rappresentazione.
Chiari sono i riferimenti al cinema lynchiano, sempre per rimanere nell’immaginario proprio del regista Latella, che spesso fa riferimento all’universo figurativo statunitense. Ciò è evidente nell’apparizione di Honey, in veste di coniglio antropomorfo, che rimanda immediatamente alla serie Rabbits di Lynch, ripresa poi nel film Inland Empire, del regista stesso.
Chi ha paura di Virginia Woolf?, nell’adattamento di Antonio Latella, è un’opera sicuramente da non sottovalutare; congeniale a un pubblico che, subendo gli stessi supplizi che i protagonisti si autoimpongono, è portato a riflettere su ciò che può essere considerato un fallimento esistenziale e ciò che, invece, è giusto compatire.
Chi ha paura di Virginia Woolf?
di Edward Albee
traduzione Monica Capuani
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini
dramaturg Linda Dalisi
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente al progetto artistico Brunella Giolivo
assistente volontaria alla regia Giulia Odetto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli
Al Teatro Arena del Sole di Bologna