Crampi psicosomatici negli ‘Scherzi scenici’ di Čechov
@ Mattia Aloi (24-06-2021)
Sul finire della primavera, dopo i fiori nei prati sono tornate a sbocciare le arti, libere dalla loro prigionia nel Tartaro. Senza dover più temere l’oscurità della caverna possiamo finalmente tornare a vedere la luce dei riflettori. Nel Teatro della Limonaia di Villa Strozzi alzando gli occhi potremo ammirare Vega, Deneb e Altair; abbassandoli potremo goderci lo spettacolo germinato dagli insegnamenti di Caterina Fornaciai ai suoi allievi. La regista chiarisce subito la scelta del copione: da tempo aveva in mente gli atti unici dello straordinario drammaturgo russo, spesso considerati figli minori rispetto ai grandi lavori dello scrittore, continuamente riproposti, come Ivanov e Il giardino dei ciliegi, invece anch’essi attraversati dalla malinconia di fondo che rende così evoluti i personaggi usciti dalla penna di Čechov, tanto da spingere Konstantin Stanislavskij a sviluppare il suo metodo per rendere giustizia a quei personaggi. Il treno, L’orso, La corista e Una domanda di matrimonio vengono interpretati mantenendo la scenografia raffigurante un salottino borghese, cornice delle disavventure umoristiche dei personaggi, borghesi russi di fine Ottocento la cui ipocrisia e piccolezza riecheggia nei salotti del bel paese odierno. La scelta di usare alcuni regionalismi e accenti caratteristici esplicita questo parallelismo, per quanto la differenza di esperienza fra gli attori del cast risulti visibile. Questa differenza però permette allo spettatore un’operazione raffinata di metacognizione riservata negli spettacoli di professionisti solo agli addetti ai lavori: la capacità di usare i giusti tempi comici, impostare la voce, gestire l’accento e optare per una interpretazione più impostata o naturale sono qualità che si ottengono col tempo e con l’esperienza e vedere quando funzionano o meno concede alla persona in platea di apprezzare gli artifici teatrali e iniziare a comprenderne le dinamiche. Ne Il treno troviamo una cacciatrice di dote (Emma Magrini) corteggiata da un giovanotto (Andrea Scuffi), ne L’Orso la situazione si fa più frizzante grazie alla vedova inconsolabile (un’apprezzabile Caterina Badia) e il lento maggiordomo alle prese con il creditore (Roberto Bello). La vera chicca è rappresentata da La corista, probabilmente la parte più riuscita dello spettacolo in cui troviamo una moglie tradita (Matilde Galmarini) faccia a faccia con l’amante del marito – una menzione particolare per Giorgia Falcier per l’ottima interpretazione e doti trasformistiche per essere passata dal personaggio del maggiordomo alla soubrette e poi alla madre. Nel finale troviamo La proposta di matrimonio, riuscita bene ma appesantita dalla lunghezza di un testo che per lo spettatore moderno abituato a certi meccanismi può risultare ridondante in alcune parti. Un giovane proprietario (un promettente Lorenzo Corsi) chiede al vicino di casa (Andrea Scuffi) la mano della figlia (Vittoria Pacini), in un ambito in cui il romanticismo lascia il posto al mero calcolo degli interessi reciproci. Buona scelta di musiche e ottimi costumi ad opera di Matteo Menduni.
Il fil rouge dei vari atti è la malattia: c’è sempre un personaggio che si sente male, con crampi allo stomaco. Più che al malessere fisico Čechov esprime il sintomo psicosomatico di una società in cui al centro non vi sono le persone ma gli interessi, in cui si accumulano beni mondani per controbilanciare il fardello interiore di ciascuno. Per alleviare questo fardello che tutti noi abbiamo visto aumentare in questi mesi in cui siamo stati sottoposti al supplizio di Tantalo non c’è scelta migliore se non fare un salto appena possibile a vedere uno spettacolo, mettersi in gioco ancora una volta e avere il coraggio di riprendersi un posto sul palcoscenico del mondo.