Il byronismo di Anne Lister. Divagazioni romantiche intorno a ‘Gentleman Jack’

Il byronismo di Anne Lister. Divagazioni romantiche intorno a ‘Gentleman Jack’

@ Lucia Tempestini & Sergio Cervini (10-07-2021)

Se così deve essere,…
spiriti della terra e dell’aria,
voi non mi eluderete…
per un potere ancora più profondo,
per la malìa concepita in una stella
maledetta, rovina incandescente
d’un mondo distrutto
inferno errante nello spazio immenso,
per l’anatema eterno che mi pesa
terribile nell’anima,
il pensiero ch’è dentro e intorno a me,
Apparite! Ve l’ordino! Apparite!
Lord Byron, Manfred

 

I’m always all right è una frase ricorrente nella serie, Anne Lister la erige come una palizzata difensiva nei momenti difficili. Fa appello a una guasconeria e a un pragmatismo che di episodio in episodio tendono a sfaldarsi, mutandosi in pensosità. E’ uno scudo verbale che ha la funzione di proteggerla dall’emotività presente nel suo carattere, dalle ferite che le hanno procurato le numerose delusioni sentimentali, le frustrazioni legate alla miniera di carbone, i rapporti difficili con la sorella Marian e, infine, il brutale pestaggio su commissione subito in mezzo alla campagna.

Come il lavoro manuale forsennato che svolge a Shibden Hall a fianco dei suoi fittavoli e operai, l’enunciato stoico serve a confinare rabbia e dolore in un angolo, dimenticarli temporaneamente, togliere loro forza. Sono strategie che le vengono dal culto della Ragione – lontano dalle costruzioni metafisiche e mai dogmatico –, dall’eredità degli ‘spiriti forti’ del ‘600 e dalla formazione classica. Tuttavia, in un punto preciso – la fine del soggiorno londinese in compagnia di Mariana Belcombe –, il lato diurno di Anne viene travolto dal byronismo, ed effettivamente nel corso della vita la poesia romantica divenne il suo principale riferimento culturale. Si acuirono il titanismo, l’attrazione per gli spazi smisurati, per le montagne, la sfida, il superamento di confini e limiti. La filosofia del finito fu insidiata dal modello panteistico e dalla sehnsucht, la dipendenza dal desiderio. Da viaggiatrice cosmopolita si trasformò in viandante contemplativa alla Caspar David Friedrich.

L’ottavo episodio, germinando dal finale del settimo, si consegna a una lettura stratigrafica nella quale è necessario inseguire ciò che sta accanto, attorno, dietro, per potervi precipitare dentro. Anne non sta più così bene, ma d’altronde è sempre stata posseduta, almeno in parte, da una concezione dell’esistenza come aspirazione struggente, brama appassionata (di viaggi, conoscenza, avventure, scoperte, e soprattutto donne). Per questo le risulta intollerabile sentirsi imprigionata nei luoghi comuni della femminilità e in un microcosmo dove i sussurri della maldicenza e dello scherno volgare la stringono in una morsa soffocante. Nature played a challenging trick on me, didn’t she, putting a bold spirit like mine in this vessel, in which I’m obliged to wear frills and petticoats? Well, I refuse to be cowed by it.

L’ultimo capitolo di Gentleman Jack, tornando al montaggio frenetico e alla velocità della prima parte, sembra voler chiudere il cerchio. Eppure si tratta di un’impressione sbagliata; se lo stile è analogo, completamente diversi sono il colore psicologico complessivo e lo stato d’animo della protagonista. La consapevolezza di fuggire i disappointments sostituisce la felicità dell’esplorazione, l’amarezza è sempre presente dentro un’ironia che si fa meno acuminata, le novità non sono poi così scintillanti. Dentro ogni istante non più epifanico, dentro le conversazioni spesso futili, sotto la pioggia battente di Copenaghen, negli abiti da sera incongrui di satin bianco – con uccelli del paradiso fra i capelli – che danno origine a scene comiche di apparente alleggerimento, nelle lettere esaminate con rapidità alla ricerca dell’unica che le darebbe sollievo, si annida l’immagine di Miss Walker. Persino il ballo con la sensible young lady Sophie Ferrall durante la festa di compleanno della regina di Danimarca, mostra le tracce di una sofferenza che si dibatte inutilmente.

E’ un pensiero ossessivo che le morde la carne, anche durante il viaggio di ritorno ad Halifax, in pieno inverno, cui è costretta a causa di un temporaneo peggioramento della zia. Sembra di vederli, i pensieri bui che la avvolgono, sulla nave, mentre una luna fumigosa alla Redon sbiadisce il nerore della notte e del mare, e sul molo mentre si affretta passandosi una mano fra i capelli per districarli, seguita dai due domestici affranti. E ancora sulla carrozza che percorre le strade fangose d’Inghilterra, nei giorni in cui rimane in equilibrio sull’asse posteriore del veicolo, vestita più o meno da ussaro, sgualcita da una traversata interminabile. Persino quando sale le scale di casa con furia, precipitandosi in camera della zia Anne, nel frattempo pressoché guarita.

Solo nei pressi della miniera allagata, incontrando di nuovo Ann Walker, qualcosa le si scioglierà nella mente e nei nervi. Sarà Ann stavolta a prendere l’iniziativa, muovendosi con uncommonly and fastidiously gentleness verso un dolore che tenta di conservare la dignità. Saranno le sue mani a cercare e curare il nucleo pulsante non di una delle molte identità di Anne Lister – Freddy o Jack o un qualsiasi sottufficiale scapestrato e seduttore –, bensì di una persona che per la prima volta mostra la propria fragilità. Ann Walker trova il coraggio di seguire i suoi istinti, di accettare la passione che prova da quasi quindici anni per Anne Lister, e trova soprattutto la forza interiore di considerare l’unione con Anne assai più importante della disapprovazione sociale e delle sue conseguenze. Sa che la salvezza della sua anima dipende da questo. E Anne Lister riesce a disfare i troppi nodi che chiudono la sua sensibilità in un involucro, non curandosi più di nascondere davanti ad Ann i segni di un lungo apprendistato al dolore. Davanti ad Ann, so sweet, so good-natured, so kind. Lasciandosi accarezzare il viso, mormorando don’t hurt me, I’m not as strong as you think.

Il finale vero e proprio appare come un crocevia dove l’elemento stilistico del perpetuum mobile, creato dai movimenti circolari dell’obiettivo, si unisce a una struttura narrativa meno concitata. L’abbandono delle prospettive aeree non rappresenta però la volontà di circoscrivere la vicenda entro il perimetro dei salotti e delle dimore, tutt’altro. L’incandescenza e lo struggimento della sequenza precedente continuano a vibrare nell’aria, più controllati, colorandosi di felicità e ironia. L’anello in onice nera con diamanti a rosa viene finalmente accettato e il legame assume un valore anche simbolico vicino alla sacralità durante la comunione che le due protagoniste ricevono insieme, fianco a fianco, nella cattedrale di York. Nell’emozione che le stordisce riaffiorano i sorrisi, gli sguardi che si incrociano, le mani che si cercano, persino l’allegretto della notte degli equivoci che è il cuore stesso del terzo episodio (Oh is that what you call it?) e che rappresenta uno dei tempi musicali ricorrenti della storia. C’è ancora qualche istante per un ultimo “a parte” scanzonato, di natura teatrale. Anne Lister si prende il palcoscenico per lo spazio di uno sguardo di trionfo, appena fuori della chiesa. La nostra Henry Brulard anglosassone riesce a mutarsi in Ippogrifo e condurci sorridendo verso una leggerezza ariostesca.

Ascrivere Anne Lister fra le antesignane del movimento femminista significa prendere un abbaglio. Anne non si è mai sentita davvero una donna, bensì un gentiluomo dai modi delicati. Oltre il tempo, oltre qualsiasi genere. Un frammento di futuro – futuro anche rispetto ai nostri anni e a un certo conformismo di ritorno – caduto per qualche miracolo nell’Inghilterra degli Hannover. Gli dèi, a volte, sono generosi, e anche un po’ queer.