L’Iliade di Cuticchio. L’ira di Achille trova la strada dell’Opera dei Pupi
@ Paolo Randazzo (14-09-2020)
Recensire uno spettacolo di Mimmo Cuticchio è un’operazione pericolosa: si rischia sempre di cadere nella retorica inutile, nel pleonasmo. Sono talmente ricchi, autorevoli, variegati, preziosi i materiali che questo artista utilizza per costruire i suoi lavori, sono tali la sua maestria e la sua pluridecennale esperienza che risulta difficile scrivere altro che apprezzamenti positivi. Si veda ad esempio “L’Ira di Achille”, il libero e giocoso adattamento dell’Iliade, con cui il maestro palermitano del “cunto” e dell’opera dei Pupi si sta ripresentando al pubblico dopo la cupa stagione del lockdown.
Lo si è visto nel Teatro Greco di Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, e poi a Messina, nel Museo interdisciplinare, rispettivamente il 2 e il 6 settembre scorsi. In scena, oltre allo stesso maestro e ai suoi pupi, ci sono Giacomo Cuticchio, Tania Giordano, Marika Pugliatti e Emanuele Salamanca. Val subito la pena di ricordare che parte integrante di questo lavoro sono le bellissime musiche di scena, opera di Giacomo Cuticchio (figlio di Mimmo) il quale, accanto alla sua professione di compositore e di musicista autonomo, ama comporre e suonare musiche assai raffinate e di sapore contemporaneo per la scena dell’“Opra”. Perché questa notazione relativa alle musiche è importante? Perché assegnare tanta importanza a queste musiche? Perché esse sono un segno (certo, non il solo) che di teatro vero si tratta, di arte autentica, di un’arte che, pur utilizzando materiali narrativi ed espressivi preziosi appartenenti alla tradizione di un passato più o meno remoto, si situa nell’oggi, dialoga con l’oggi ed è in questo dialogo che trova la sua necessità e il suo pregio maggiore. Arte, non folklore.
Il distanziamento istrionico, giocoso, ironico di Cuticchio dalla materia narrativa e, come si è detto, le stesse musiche di suo figlio Giacomo (suonate in scena da Alessandro Lo Giudice, Paolo Pellegrino, Nicola Mogavero, Giulia Lo Giudice, Roberta Casella) prendono per mano lo spettatore e gli indicano la via della non immedesimazione, della riflessione critica e politica nel livello e nel modo che ciascuno riesce a produrre. Il tema, ovviamente, è universale ed è la ferocia e l’inaccettabilità morale della violenza bellica. Qui interessa riflettere – e far riflettere chi legge – sul fatto che, in un momento in cui la comunicazione pubblica pretende, sollecita, suscita adesioni acritiche e fideistiche, una forma d’arte tradizionale e popolare decide fortunatamente di restare meravigliosamente dissonante e di non derogare alla sua funzione prima che è quella di aprire gli occhi al pubblico e fornirgli strumenti, vivi ed efficaci, di percezione critica della realtà.
Crediti fotografici: Alessandro D’Amico.