Si è spento il grido abrasivo di Caterina Bueno
@ Lucia Tempestini (23-07-2007)
In questi giorni di canicola sgraziata e di dolore si fa largo tra i pensieri sconnessi l’assenza di Caterina. Questo sentimento è ancora tollerabile, per via della persistenza quasi tangibile della sua persona nel ricordo; più tardi la coscienza del vuoto, la percezione di un orizzonte meno ampio e azzurro, di un’esistenza più povera (di memoria, di intelligenza), faranno deragliare la corsa del cuore.
La sua voce colpisce le pareti di ogni stanza della mente, quella voce che nel corso degli anni si era fatta via via più scura, vissuta, riempiendosi di vibrazioni e sottigliezze.
Ha cantato madrigali e ballate medievali (Donna lombarda), storie di emigranti (Il tragico naufragio della nave Sirio), di minatori del Monte Amiata, di anarchici, ninnananne struggenti, filastrocche, ironiche epopee della fame, tanghi popolari, ribotte; ma, è solo un mio pensiero, è nei canti dei carcerati (per es. Il Maschio di Volterra) che Caterina si è interamente fatta suono, lamento antico e assolato, grido abrasivo che sale dalle viscere lacerate della terra.
C’era, nel suo canto, il sale, essenziale e amaro, e certe cale spinose e affocate della costa maremmana, e la vegetazione palustre, gli antichi canali e acquitrini che soffocano la vita; e, in tutta questa naturale asprezza toscana, si aprivano improvvise insenature di dolcezza liquida (E cinquecento catenelle d’oro).
Tutto l’immenso materiale raccolto, registrato, rivissuto e inciso da questa straordinaria ricercatrice/artista, incantata dal bel parlare che da secoli è patrimonio della Toscana contadina (mi vengono in mente, per affinità intellettuale, La notte di San Lorenzo dei Taviani e gli spettacoli del gruppo Arca Azzurra di Chiti), resterà, ma, in questo momento, preferirei riavere la sua ironia conviviale, l’attenzione umana e, in particolare, il senso della misura (così raro nel nostro paese) che le ha sempre impedito di indulgere al proclama e all’invettiva (anche quando ce ne sarebbe stato motivo).
Soprattutto vorrei poter ritrovare la luce blu del suo sguardo (non di carbone, come mi è toccato leggere qualche anno fa in un articolo un po’ insulso), una fiamma marina che riverberava dentro il suono.
In questo tempo di analfabetismo interiore, di cialtroneria e approssimazione, di rapido dissolvimento di ogni memoria, sarebbe un atto necessario da parte della televisione pubblica (?) riproporre “Italia bella mostrati gentile” di Giancarlo Governi (1978); ma è impossibile chiedere una cosa simile alla rai attuale, ingrommata di fiction precotte e predigerite, di “formattini” andati a male e presentatrici al silicone e/o al botulino.
Forse, il modo più lieve di salutare Caterina è citare un piccolo brano della sua Serenata:
Se dormi svegliati, fanciulla adorata,
‘sta serenata la canto per te.
Vestiti presto e mettiti i bei panni,
toglilo questo cuor da tanti affanni.