Addio Signora Franca | Una sera alla Pergola di Firenze
@ Lucia Tempestini (09-08-2020)
Mi spoglio dei toni impersonali perché in mezzo alle lacrime suonerebbero ridicoli. La morte di Franca Valeri è una perdita incolmabile per la Storia non solo culturale del nostro paese, e per me un colpo fatale. In questo momento l’unico modo per renderle omaggio nell’immediatezza della scomparsa mi sembra ricordarla in stato di grazia in un suo spettacolo del 2012, diretto da Giuseppe Marini e visto al Teatro della Pergola di Firenze, Non tutto è risolto.
La Vecchia Contessa protagonista della commedia, scritta dalla stessa Franca Valeri, si trova a entrare – per dissimulata volontà, o necessità – in un palazzo seicentesco dove fasci di luce polverosa – provenienti da chissà quale finestra o fenditura – mostrano progressivamente l’interno fortemente viscontiano (modellato sulle stanze vuote e neglette della residenza del principe di Salina a Donnafugata). E’ lo spirito senza riposo, così inquieto e ansioso di assoluto, del Manfred di Schumann a rivelare gli angoli del salone: le travi pericolanti, i mosaici sbriciolati, la tappezzeria rosso cupo, ormai scolorita, macchiata, strappata alla base, l’intonaco verde chiaro, strusciato dagli anni, che si intravede attraverso l’alta porta semiaperta a pannelli quadrati, e una monumentale, magnifica stufa di maiolica (così bella…e così spenta), rapita dalla Contessa in un passato imprecisato alle vertigini concrete e metaforiche delle montagne austriache.
Non si pensi però a una qualche inclinazione elegiaca o crepuscolare del testo. Prestissimo, fin dall’entrata in scena della Vecchia Signora in elegante pelliccia color crema e cappello blu “di modista”, si percepisce il geniale, sottile slittamento dei dialoghi verso una zona entro la quale luoghi comuni, banalità, rapporti convenzionali (il lei non è distanza, è riflessione; dà modo di valutare il rapporto che abbiamo con l’interlocutore) non hanno diritto di asilo. Persino il destino è bandito, persino i ricordi, la realtà si disfa e si ricompone nello spazio ogni volta nuovo e vuoto, grazie alla lucidità – secca, consapevole, insofferente, infinitamente creativa – di un ragionare apparentemente insensato (la stessa insensatezza rintracciabile nei mondi di Carroll), che si trasforma nel crogiuolo dove arrivano a fondersi realtà oggettiva e dimensione onirico-fantastica.
Questa forma psichica ed estetica dell’esistenza trae linfa dalla contrapposizione con l’ossessiva organizzazione cronologica della vita di cui è fautrice la segretaria (e con l’ottusa determinazione della stessa a riportare la Signora all’unidimensionalità dei ricordi), nonché dalla vivida relazione con gli oggetti. L’ininterrotta ricreazione degli eventi, per fuggire l’astrazione, prende come punto di riferimento il rapporto con le cose – il feltro nero di Balenciaga o la panciuta stufa austriaca – e le suggestioni fisico-emotive provenienti da esse. Per questo è così importante mantenerne vivo il senso, per esempio accendendo la stufa.
Tutto il resto deve essere abbandonato e dimenticato: le case che si impregnano di memorie e relegano i proprietari entro un’identità immutabile (la cosa migliore è venderle; si offendono e ti lasciano con rancore, in modo definitivo) e i figli (non è nei miei progetti farle da mamma) cui, se incontrati per caso, vengono assegnati ruoli diversi (per es. il maggiordomo, che dà sempre una certa distinzione: lei verrà temporaneamente tollerato con la speranza che riesca ad accendere la stufa).
Altrimenti, in una tenebra improvvisa e angosciante, può materializzarsi lo scheletro bianco di una sedia a rotelle e la prospettiva di una forma di vita chiusa e ferma, in compagnia di una segretaria leziosa e sciocca che anela a verificare il clima descritto dai giornali e un figlio superficialmente amorevole. Breve visione beckettiana che gli spettatori (fortunati di aver assistito otto anni fa a un simile prodigio, o epifania teatrale) non avranno certamente dimenticato. Niente potrà mai cancellare la voce inerme ed esasperata della Contessa, i piccoli gesti rotti dell’insofferenza, dell’impotente rabbia senile, i toni di un’intelligenza senza pari che non si rassegna a cedere terreno alla stupidità circostante – mentre risuona immateriale una sua frase precedente: io non faccio parte della gente –, della fragilità dignitosa e ferrea che le impedisce di arrendersi alla natura molliccia del mondo.
Non sarà questa la fine, si tratta solo di una possibilità oscura da allontanare, di un vacillamento del pensiero. In realtà (realtà?), la nostra Contessa, lasciata dall’insopportabile segretaria, abbandona definitivamente il palazzo (e il figlio Manfred) portandosi appresso una nuova, scarmigliata cameriera e l’idea di far trasferire nel futuro alloggio la cara stufa di maiolica. Perché, per restare in gioco, qualcosa deve per forza “rimanere in sospeso”.