Punto di (s)vista
HEDDA GABLER NELLA REGGIA DI ARGO
AGAMENNONE
di Eschilo
regia Luca De Fusco con Elisabetta Pozzi, Gaia Aprea, Mariano Rigillo Teatro della Pergola – Firenze
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Gli occhi della Sentinella sono invecchiati guardando le costellazioni cambiare, come le stagioni, nel cielo di Argo. Le membra si sono coricate ogni notte sulla terra madida di umidità, apportatrice di sogni inquieti, grevi di presagi.
Le ombre cenciose dei Corifei, curve, rattrappite da venti anni di attesa, fuoriescono dalle grandi reti dei pescatori, dalla terra nera. Creature né vive né morte, risvegliate dalla fiamma muta che si illumina di monte in monte da Ilio ad Argo. Il segnale della sconfitta di Troia e del ritorno di Agamennone. Vagano increduli intorno alla reggia degli Atridi “non più governata come un tempo”, aspettando lo sbarco di eroi ormai canuti, svuotati, resi amari da una guerra troppo lunga, intrisi della pioggia colata dalle mura di Troia, inseguiti dal dolore dei morti, dei “figli buttati sui corpi dei vecchi genitori defunti”, dei superstiti umiliati e resi schiavi.
Il cupo Agamennone, ombra monolitica, proiezione funesta di ogni orrore storico passato e futuro, viene accolto dalle parole umili, dall’adulazione sottomessa di Clitemnestra, e non può non venire in mente la frase del ‘Macbeth’: “Nella lingua, appari come il fiore innocente. Ma sii la serpe che vi si cela sotto”.
Le mura della reggia grondano sangue da generazioni. Persino Ifigenia, al momento della partenza per Troia, è stata sacrificata con noncuranza dal padre, similmente a una capra, per “ingraziarsi i venti di Tracia”. Il suo pianto, e le urla, la ribellione vana per un gesto insensato di superstizione e imperio, echeggiano sulle rive dello Stige e da lì arrivano a turbare incessantemente il cuore di Clitemnestra, dove matura, giorno dopo giorno, nei lunghi anni vuoti, il desiderio di un gesto di giustizia. Perché la giustizia deve appartenere agli Uomini, non ai capricci di divinità crudeli dai moventi incomprensibili.
Determinata e feroce, Clitemnestra trafiggerà a morte Agamennone insieme all’innocente Cassandra, la profetessa figlia di Priamo, violata da Aiace e trascinata ad Argo come preda di guerra.
Testo immenso quello di Eschilo, che certamente avrebbe meritato una minore approssimazione da parte del regista e della compagnia.
Potevano forse essere evitate certe fosforescenti millanterie, certi rossi sgargianti e vampe ciclamino, che trasportano la vicenda in discoteche periferiche della riviera romagnola. Così come sarebbe stato meglio impiegare, per essenziali oggetti di scena (la testa del cavallo di Troia, la spada di Clitemnestra), materiali più evocativi – legno, metalli –, anziché incaute plasticacce reperite fra i fondi di qualche magazzino suburbano. Per (non) tacere della porta della reggia, attrazione irresistibile in un ipotetico luna-park di ascendenza vagamente disneyana.
Strappa un sorriso di desolazione anche la volenterosa, incolpevole danzatrice cui viene affidato il compito di rappresentare l’indole di Elena per mezzo di sinuosità pseudo-mediorientali.
Abbastanza sconcertante la Clitemnestra di Elisabetta Pozzi, proiettata negli inferni salottieri di Ibsen e così contigua ai toni e agli atteggiamenti di Hedda Gabler che quasi ci si aspetta, da un istante all’altro, la comparsa di una pistola al posto dell’inquietante spada vendicatrice. E che dire dell’odioso Agamennone? Eroe dismesso con evidenti difficoltà deambulatorie, appare stentoreo e inespressivo come la statua del Commendatore.
Soltanto la Sentinella e i Corifei, ma soprattutto Cassandra (Gaia Aprea), mostrano una coscienza archetipica, e avvertono l’incanto e la densità di ogni singola parola pronunciata, insieme alla responsabilità empatica verso i personaggi.
Porteremo a lungo nel cuore le grida di colomba adolescente emesse dall’inascoltata sacerdotessa di Atena.
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