I 90 anni dell’ex texano dagli occhi di ghiaccio
@ Antonella Falco (31-05-2020)
Compie 90 anni una delle ultime leggende di Hollywood, Clint Eastwood, interprete prima e poi anche regista di un cinema stoico, che del personaggio dall’espressione indecifrabile, dalla comunicazione verbale ridotta al minimo e dal sorriso sottinteso che si tramuta in ghigno ha fatto una figura iconica.
Nato a San Francisco, in California, il 31 maggio 1930 da una famiglia che mescola sangue irlandese, scozzese, inglese e olandese, nei primi dieci anni di vita cambia altrettante scuole a causa del lavoro del padre, operaio nel settore dell’acciaio, costretto spesso a spostarsi. Amante dello sport e della musica, appena ottenuto il diploma, nel 1948, decide di non seguire la famiglia in Texas. Durante il servizio militare, nel corso del quale riesce a evitare la partenza per la guerra di Corea, conosce David Janssen, il futuro Richard Kible della serie televisiva Il fuggiasco ed è su suggerimento di questi che tenta la fortuna ad Hollywood. I primi ruoli, poco più che semplici comparse, non sono neanche accreditati, ma grazie alla sua partecipazione al western del 1958 L’urlo di guerra degli Apaches viene notato da Robert Sparks, dirigente della CBS, e scritturato per la serie televisiva Gli uomini della prateria: è il suo primo ruolo da protagonista. Proprio mentre recitava in questa serie, Eastwood riceve la proposta di interpretare un western in Europa, The magnificent stranger, la pellicola doveva essere girata in Spagna per la regia di un italiano, Sergio Leone. L’attore accetta quando scopre che la sceneggiatura è ispirata a La sfida del samurai di Akira Kurosawa: Clint sapeva infatti che anche I magnifici sette, film di enorme successo che aveva fatto la fortuna di attori quali Charles Bronson, James Coburn e Steve McQueen, era stato tratto da un film di Kurosawa. L’uomo senza nome, protagonista di quello che sarebbe stato intitolato Per un pugno di dollari (1964), era un antieroe vagabondo, troppo fuori dagli schemi del western tradizionale, perciò, finite le riprese, Eastwood torna in patria senza troppe aspettative, ma viene raggiunto da una lettera che lo informa del successo del film e gli propone di girarne il seguito, diretto dallo stesso regista. Clint accetta senza esitazioni, con Sergio Leone ha stabilito un buon rapporto e anche Per qualche dollaro in più (1965), che vede la new entry di Lee Van Cleef, ottiene incassi enormi. Il terzo capitolo, Il buono, il brutto, il cattivo (1966), è una logica conseguenza. La “trilogia del dollaro” regala a Clint Eastwood una grande popolarità internazionale, rendendolo un’icona ma anche bollandolo come attore legnoso e monocorde, pressoché inespressivo. Resta celebre la definizione data da Sergio Leone che di lui disse: «Mi piace perché ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello». Un marchio che Clint impiega molto tempo a scrollarsi di dosso. Intanto la sua carriera è finalmente decollata, e con essa i compensi che riceve; nel 1969 interpreta con Richard Burton Dove osano le aquile. Con la tranquillità economica raggiunta può permettersi di acquistare un ranch alla periferia di Carmel by the Sea, cittadina californiana che diversi anni più tardi lo eleggerà sindaco. Può inoltre fondare una propria casa di produzione cinematografica, la Malpaso Productions che si è occupata di tutti i suoi film successivi e di un selezionato numero di film di altri autori.
Gli anni Settanta sono quelli dell’Ispettore Callaghan, una serie di film acclamatissimi dal pubblico ma non privi di polemiche da parte della stampa che in larga parte giudicava reazionari e fascistoidi i metodi sbrigativi dell’ispettore, mentre solo una minoranza di essa considerava questa serie di film come la descrizione della lotta di un uomo onesto contro il sistema.
Il 1970 è l’anno dell’esordio di Eastwood dietro la macchina da presa con Brivido nella notte, pellicola in cui il protagonista, lo stesso Clint, è perseguitato da una donna maniaca e possessiva.
Nel 1975 dirige e interpreta Assassinio sull’Eiger, in cui l’attore realizza da solo, dopo un duro allenamento, tutte le scene della scalata sul monte svizzero, rifiutando l’ausilio delle controfigure in base al principio secondo cui non era lecito chiedere ad altri di rischiare la vita se egli stesso non era pronto a metterla a repentaglio nelle medesime condizioni. Le riprese sono funestate da una serie di incidenti e uno stuntman inglese rimane ucciso dalla caduta di un masso il secondo giorno di lavorazione. Purtroppo anche gli incassi e i riscontri da parte della critica non sono eccellenti.
Il resto degli anni Settanta e gli anni Ottanta trascorre fra film da lui diretti e interpretati e ruoli sotto la direzione di altri registi, senza risparmiarsi il rischio di cimentarsi nuovamente col western, genere ormai in declino, interpretando e dirigendo Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) e Il cavaliere pallido (1985), due scommesse vinte.
Torna al western anche nel 1992 con Gli spietati, ancora una volta davanti e dietro la macchina da presa e, affiancato da comprimari del calibro di Gene Hackman, Morgan Freeman e Richard Harris, si dimostra una volta di più il re indiscusso di questo genere. Il film ottiene nove nomination agli Oscar 1993, compresa quella di miglior attore per Eastwood, e ne vince quattro: miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista (Hackman) e miglior montaggio (Joel Cox). Nei titoli di coda è presente una dedica speciale – “Dedicato a Sergio e Don” – in omaggio al maestro e artefice del suo successo, Sergio Leone, e a Don Siegel, suo mentore e regista di molti film da lui interpretati.
L’ultimo decennio del Novecento e il primo ventennio del secolo successivo sono costellati da una serie di pellicole da lui dirette e, a volte anche interpretate, talmente belle e importanti che meriterebbero ognuna un articolo a sé. Al 1993 risale Un mondo perfetto con Kevin Costner nei panni di un evaso che rapisce un bambino col quale instaura però un rapporto di amicizia e fiducia reciproca, e lo stesso Eastwood in quelli di un Texas Ranger che gli dà la caccia. Il film si discosta dai precedenti per un maggiore approfondimento delle vicende psicologiche dei personaggi e per uno stile che si fa di pellicola in pellicola sempre più personale e improntato a un sostanziale pessimismo di fondo.
I ponti di Madison County vedono Eastwood confrontarsi con un tema nuovo per la sua filmografia, quello amoroso, realizzando anche a detta della critica una delle sue migliori regie, mentre la Streep, sempre superlativa, colleziona l’ennesima nomination agli Oscar come miglior attrice protagonista.
Nel 2000 dirige e interpreta, collaborando anche alla colonna sonora, Space Cowboy, con Tommy Lee Jones, Donald Sutherland e James Garner: i quattro interpretano i ruoli di ex astronauti mandati nello spazio con la missione di riportare in orbita un satellite russo che rischia di schiantarsi sulla Terra. Il film viene presentato fuori concorso alla 57° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove, per l’occasione, Eastwood viene insignito del Leone d’Oro alla Carriera.
Altro grande successo è Mystic River (2003), che lo vede impegnato alla regia, alla produzione e alle musiche, mentre dei tre strepitosi interpreti – Sean Penn, Kevin Bacon e Tim Robbins – due, Penn e Robbins, si aggiudicano sia l’Oscar che il Golden Globe 2004 rispettivamente nelle categorie miglior attore protagonista e non protagonista, Eastwood ottiene invece le nomination per la miglior regia e il miglior film.
Ma il grande trionfo agli Oscar arriva l’anno successivo, nell’edizione 2005, quando Million Dollar Baby porta a casa quattro statuette nelle categorie principali: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista a Hilary Swank e miglior attore non protagonista a Morgan Freeman, Eastwood ottiene anche la nomination come miglior attore protagonista ma non vince. Poco prima il film si era aggiudicato due Golden Globe, quello per la miglior regia e per la miglior attrice protagonista e conquisterà svariati altri premi internazionali. La trasformazione della trentenne Maggie Fitzgerald in una campionessa di pugilato in un lasso di tempo proibitivo è solo il pretesto per affrontare, nello stile asciutto ma intenso e profondo, tipico di Eastwood, il delicato tema dell’eutanasia, ma anche per parlare, con pudore e pacata malinconia, di sentimenti ritrovati, generosità, coraggio e della crudeltà dell’esistenza.
Il 2006 è l’anno del personalissimo dittico Flags Our Fathers (due nomination agli Oscar) e Letters from Iwo Jima (quasi interamente girato in lingua giapponese), due film complementari che raccontano la medesima battaglia della seconda guerra mondiale, quella appunto di Iwo Jima, ciascuno dal punto di vista dei due opposti eserciti in lotta e rappresentano l’omaggio che il regista ha voluto tributare ai caduti di entrambi gli schieramenti.
Con Gran Torino, del 2008, arriva un nuovo trionfo di critica e pubblico. Il film è incentrato sulla figura di un reduce della guerra di Corea, Walt Kowalski, appena rimasto vedovo e avente con i figli un rapporto complicato. Burbero e razzista, Kowalski sembra aver fatto dell’astio nei confronti del diverso la sua ragione di vita e passa il tempo rintanato nella sua casa con due sole passioni: la birra e la splendida Gran Torino, la Ford del ’72 che custodisce gelosamente in garage e sottopone a una continua e attenta manutenzione. L’uomo, tormentato da un segreto conflitto interiore che sembra affondare le radici nell’esperienza della guerra, compendia per certi versi le principali caratteristiche dei personaggi interpretati da Eastwood nella sua lunga carriera e ne rappresenta una sorta di sintesi, ma pur essendo sicuramente in linea con questi è nello stesso tempo molto più complesso e ricco e sfaccettato di quanto possa apparire a prima vista, e vive, nel corso del film, una personale evoluzione, scoprendo nei giovani asiatici suoi vicini di casa quei valori nei quali egli crede e che la sua famiglia e il mondo occidentale nella sua interezza sembrano avere non solo dimenticato ma addirittura capovolto. Da questa presa di coscienza scaturisce la decisione di sacrificarsi, ormai vecchio e malato, per garantire ai suoi nuovi amici un’esistenza serena e pacifica. «Interpreto un tipo strano – dice Eastwood del suo personaggio – un vero razzista. Ma anche una redenzione. Questa famiglia asiatica si trasferisce nella casa accanto, lui ha combattuto nella guerra di Corea, nella fanteria, e guarda agli asiatici come a una massa indistinta. Ma loro lo aiutano nel momento del bisogno, perché lui non ha un rapporto con la sua famiglia». Raccontandoci tale redenzione, Eastwood ci regala un personaggio impossibile da dimenticare.
Sempre nel 2008 il regista dirige un’intensa Angelina Jolie in Changeling, basato su fatti realmente accaduti nella Los Angeles del 1928, quando a una donna a cui è scomparso il figlio viene riportato dalla polizia un altro bambino e ogni sua rimostranza in proposito viene fatta apparire come le farneticazioni di una malata di mente. La determinazione e la tenacia di questa madre porteranno alla luce l’inquietante vicenda del serial killer di bambini Gordon Stewart Northcott.
L’anno dopo è la volta del biopic su Nelson Mandela, Invictus, con Matt Damon, che racconta un momento particolare della storia del Sud Africa, la storica vittoria della coppa del mondo di rugby nel 1995. Il biopic è un genere più volte frequentato da Eastwood che ci ha regalato altri ritratti di personaggi realmente esistiti in Bird (1988), che narra la storia del sassofonista e genio del jazz Charles “Bird” Parker, e in J. Edgar, dedicato alla figura del Direttore dell’FBI John Edgar Hoover, interpretato da Leonardo Di Caprio, una figura che modificò radicalmente i metodi investigativi del Bureau. E ancora in Jersey Boys (2014) che racconta la storia del gruppo musicale The Four Seasons e del suo frontman Frankie Valli, e in American Sniper (2014) basato sulla vita dell’ex membro delle Navy Seal Chris Kyle, e in Sully, del 2016, con Tom Hanks, storia del capitano del volo US Airways 1549 Chesley Sullenberger il quale il 15 gennaio 2009 fu costretto a effettuare un eroico ammaraggio sul fiume Hudson in seguito a uno scontro con uno stormo di uccelli che mise fuori uso due motori: il suo eroismo salvò la vita dei 150 passeggeri e dei 5 membri dell’equipaggio. Sempre nello stesso solco si pone Ore 15:17 – Attacco al treno (2018) che narra dell’attacco terroristico al treno Thalys 9364 in viaggio da Amsterdam a Parigi del 21 agosto 2015. A recitare nel film nel ruolo di loro stessi Eastwood ha voluto i medesimi militari che hanno sventato l’attacco.
Un filone che giunge fino al recentissimo Richard Jewell (2019), altra storia vera dell’omonima guardia di sicurezza che evitò l’esplosione di una bomba durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996 ma si vide sospettato dall’FBI come presunto terrorista e dovette subire la diffamazione da parte della stampa e dell’opinione pubblica con gravi ripercussioni sulla sua vita professionale e privata. Ancora una volta Clint Eastwood prende spunto da una vicenda di cronaca per mostrare come, specie negli Stati Uniti, un essere umano possa prima essere osannato e poi gettato nel fango sulla base della narrazione che gli viene costruita attorno. D’altra parte quanto morboso e claustrofobico possa essere lo storytelling che viene cucito addosso a un individuo pur non corrispondendo alla sua vera identità è esperienza che lo stesso regista conosce bene avendo impiegato anni a scrollarsi di dosso lo stereotipo di attore “a una dimensione” e avendo dovuto faticare non poco per acquisire la credibilità che gli spetta come autore cinematografico. Finanche dal punto di vista politico la narrazione che lo riguarda è stata spesso incapace di descrivere la reale complessità del suo pensiero, che pur portandolo ad aderire spesso a posizioni repubblicane è tutt’altro che reazionaria, specie sui temi etici, vedendolo a favore, ad esempio, di eutanasia, nozze gay e aborto.
Nel 2010 Eastwood dirige Matt Damon e Cecile De France in Hereafter, confrontandosi col tema della morte e dell’aldilà, argomento inconsueto per il regista che però conferma la sua vocazione e attenzione per le sfumature ed esplora la tematica di una possibile esistenza ultraterrena con tatto e poesia, senza pretendere di dare risposte definitive ma suscitando i giusti interrogativi e contrapponendo alla precarietà del presente la struggente speranza di un futuro che la morte non può spezzare.
Schivo come la gran parte dei suoi personaggi, Eastwood già dieci anni fa, quando si apprestava a spegnere le ottanta candeline, si lasciò sfuggire la seguente dichiarazione: «Già quando si arriva ai settanta succedono un sacco di cose e una di queste è che non si festeggiano più i compleanni. L’ho proibito a mia moglie. Le ho detto espressamente “per favore, non voglio festeggiamenti.” Non voglio dover aprire un pacchetto e fingere che era proprio quello che desideravo. Non desidero nulla. Al massimo un bicchiere di vino».
Questo lascia supporre che il grande Clint oggi farà finta che sia un giorno come tutti gli altri, noi però gli facciamo lo stesso gli auguri, o meglio, un augurio in particolare, che siamo certi gradirà: quello di vederlo ancora, e il più a lungo possibile, dietro, e magari anche davanti, la macchina da presa, perché in questi tempi incerti abbiamo ancora tanto bisogno del suo sguardo lucido e disincantato sul mondo.