La scomparsa di Michel Piccoli, un attore per tutte le stagioni. Il mondo dello spettacolo si misura con il vuoto della sua assenza
@ Anna Di Mauro (25-05-2020)
Parlare di una personalità leggendaria non è agevole. Le parole non bastano o soverchiano, inutili appendici di una personalità che si commenta da sé. Quel che ha significato la presenza di un attore straordinario come Michel Piccoli nel mondo del cinema lo capiremo ancora meglio quando il buio in sala non accoglierà più nei titoli di coda il suo nome onnipresente nei film d’autore dell’ultimo mezzo secolo. Una presenza massiccia, quasi sovrabbondante e al tempo stesso essenziale, come il sole d’inverno. La sua vita circoscritta e illimitata al tempo stesso irradia le luci di uno straordinario destino costellato di personaggi emblematici, irrisolti, piegati alla sapida ironia del suo stile affilato. Una lunga carrellata di cui rimane un’ultima immagine intensamente impressa nella memoria che lascia dietro di sé: il suo volto straordinariamente espressivo nel bel film di Nanni Moretti “Habemus Papam”. E’il suo ultimo grandioso ritratto: un umanissimo Papa dimissionario con il quale Michel Piccoli ha degnamente concluso una vita dedicata al mestiere dell’attore, mestiere che nel film il protagonista paradossalmente ammette di non essere stato in grado di esercitare. Bocciato all’Accademia…Confessa il candido, fragile, tenerissimo Papa alla sua psicologa, alla quale si era invece presentato come attore, quando viene portato in incognito in terapia a causa del grave disagio psichico che stava attraversando il neo Papa appena eletto. Lo smarrimento e il pathos del suo volto, offerto con pudore, devastato dalla vecchiaia (Piccoli aveva confessato di odiarla perché tradisce la memoria, indispensabile per un attore), resteranno una vetta del cinema d’autore europeo.
Dai fasti di seduttore nei primi film degli anni cinquanta a questa figura biancovestita delicatamente struggente pullulano una marea di film epocali, di registi di spicco, di personaggi indimenticabili, incisi nell’immaginario di un mondo a cui Piccoli ha dato tanto, generosamente, puntualmente, marcando il panorama del cinema internazionale della sua figura pregnante, della sua feconda dialettica, dove una grande naturalezza si coniuga felicemente con un esperito senso della teatralità, nutrendosi di un intenso, rispettoso rapporto con l’autore, il regista, il pubblico.
Scevro da divismi, meravigliosamente duttile, eclettico, versatile, frequentato e vezzeggiato dai più grandi registi ha sempre mantenuto un impeccabile a plomb nel sostenere tanta fortuna e tanti apprezzamenti. Irresistibile nel suo charme parisienne condito da una sapida mascolinità italica, puntualmente attento a dare il meglio di sé, Piccoli ha attraversato il grande fiume di un immaginario senza precedenti, offrendo la sua indecifrabile cifra di un uomo che sa osare, ungendo la propria recitazione di un raffinato bouquet di essenze disparate, ma convergenti in un punto: passione e dignità in un ensemble senza precedenti. Amato dal cinema francese, spagnolo, italiano e da un pubblico soggiogato senza riserve, vezzeggiato e conteso dai più grandi registi del momento, lontano fisicamente e mentalmente da un certo clichè del cinema americano, il celebrato protagonista di un film cult come “Il disprezzo” di Godard, fluttuante senza irrigidimenti e sbavature in ruoli primari e secondari, fugaci apparizioni, cammei, senza sosta ha costellato la sua carriera di eventi indimenticati. Dopo l’esordio a vent’anni in un piccolo ruolo in “Silenziosa follia” di Jacque e “French Cancan” di Renoir, con Buñuel inizia un fertile sodalizio. Sarà l’alter ego del regista spagnolo che lo dirigerà in opere come “La selva dei dannati”, “Belle de jour, “Il Fascino discreto della borghesia”, dove il talento di Piccoli esplode in tutta la sua potenza. Arriviamo così ai registi italiani. Marco Ferreri, dopo l’inquietante “Dillinger è morto” lo sceglie nel discusso “La grande abbuffata” dove è affiancato dal formidabile trio Tognazzi, Noiret, Mastroianni. Con “Salto nel vuoto” di Marco Bellocchio vince a Cannes il premio come miglior attore. Pluripremiato fino al David di Donatello per “Habemus papam”, ha cavalcato decisamente il meglio della cinematografia contemporanea. Persino Agnès Varda, musa della Nouvelle Vague, dopo “Josephine”, nel 1995 lo ha voluto nel suo film dedicato al centenario della storia del cinema “Cento e una notte”. Una carriera travolgente, incredibile per la ricchezza e la qualità impeccabile di ogni interpretazione. Nella sua lunga vita segnata dall’impegno politico e culturale, dalle frequentazioni con gli ambienti filosofici, ha onorato con la sua onestà intellettuale anche il teatro a cui non si è sottratto, ritagliandosi uno spazio di grande spessore come in “Ta main dans la mienne” di Čechov diretto da Peter Brook, due giganti della drammaturgia. Ha consegnato alla storia senza palese sforzo il suo volto di incantevole, provocante intrattenitore, elegante, affascinante. Per l’attore italo francese, figlio d’arte, recitare equivale a vivere. Lo stesso impegno. La stessa profondità. La stessa leggerezza. Una grande lezione. L’artista multiforme, simbolo di inquietudini, erotismi, ironie sul mondo borghese, è stato stroncato da un ictus il 12 Maggio a 94 anni. Ora la scena è vuota. Un grande silenzio dopo tanto sensato clamore. Se n’è andato con discrezione lasciando una grande eredità: la forza dell’eccellenza della passione istrionica fuor di misura dispensata sempre nella giusta misura.