Fuori dall’eterno presente
“Maree della memoria”, un film di Luisa Mariani, Ita, 2020.
di Danilo Amione
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Luisa Mariani è un’artista a tutto tondo. Regista teatrale e cinematografica, attrice, autrice, da sempre alla ricerca di un senso da dare a ciò che la circonda. E questa sua ennesima sortita la porta sotto i muraglioni romani del lungotevere, collocati tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini, “affrescati” dal genio del sudafricano William Kentridge con un murale, titolato “Triumphs and Laments”, lungo 550 metri, alto oltre 10 metri, ricco di 80 soggetti storici, che vanno, senza un ordine cronologico, dall’antica Roma fino al martirio di Aldo Moro. Perché la Mariani “attenziona” questa straordinaria opera? Certamente, per la sua bellezza particolare, ma c’è qualcosa di più.
La regista romana, stavolta, cerca di definire, seppure “solo” in un cortometraggio, il sentimento della memoria. E quale migliore inizio poteva avere questo viaggio nei motivi del ricordo, se non la visita all’infinita striscia senza tempodi Kentridge. Suddiviso in un prologo e sei “esercizi” di memoria, lo short movie della Mariani, con la suddivisione, genialmente, numerata del suo contenuto, sembra voler dare ordine ad una materia, la memoria appunto, che ordine non può avere. Ed è proprio William Kentridge, nel prologo del film, a ribadire questo inevitabile concetto.
Egli afferma che noi siamo sì la memoria, da essa connotati, ma che questa forma del nostro essere abbisogna della nostra cura, come anche le opere che la rappresentano, destinate per loro natura a scomparire, deperendo, compreso il suo murale, a cui egli non dà speranza di vita oltre i prossimi quattro anni è stato inaugurato nel Natale di Roma del 2016). In questo, dice l’artista, l’opera d’arte diventa metafora della stessa natura umana, necessariamente impermanente, per sua struttura fisica destinata a consumarsi, fino a dissolversi del tutto. Sta, dunque, a noi cercare di preservare il più a lungo possibile ogni forma di manifestazione dell’ingegno umano che la rappresenta. Sta proprio nella volontà di preservarla, l’unica speranza che la memoria ha di sopravvivere, nella vita come nell’arte.
Entrambe, così, vita e arte,coincidono, diventando testimonianza l’una dell’altra. E se nell’esercizio 1,“ Mi presenti i tuoi amici’ “ la Mariani mette in scena l’insegnante come simbolo istituzionale pulsante del mantenimento in vita della memoria, è nell’esercizio 2, “ Mi prenderesti a lavorare con te? “, che il discorso comincia ad ampliarsi, storicizzandosi. E’ la realtà di un presente senza differenze di “razza” che l’autrice disegna, mettendo in scena, in maniera anche divertita, allegra e ironica, la possibilità che tutte le culture possano convivere senza conflitti, non dimentiche dei disastri che l’assenza di memoria può causare. La regista non scorda, nell’esercizio 3, “Sai di geranio”, che la poesia del ricordo è l’altro pilastro su cui si appoggia la memoria di ognuno di noi.
Qui, la Mariani mette in scena se stessa, raccontando all’attore polacco Jan Kozaczuk, autore e interprete di un monologo sulla forza della memoria, della sua felice vacanza di adolescente quindicenne ad Ischia come di un sogno ancora presente nella sua vita. E Kozaczuk non può fare a meno di sottolinearle la necessità di vivere fuori da quell’eterno presente cui la nostra società della reificazione della merce ci vuole condannare. Non è, dunque, un caso che l’esercizio di memoria numero 4 titoli “Il mio computer è salvo”.
La memoria dell’hard disk, la tecnologia androide, l’illimitato scientismo attentano alla nostra umanità, senza neanche rendercene conto. Il giovane che ritrova il suo computer è felice, sorridente, assolutamente sincero e spontaneo. Ha oramai introiettato questo modus vivendi, ne ha fatto parte integrante della sua “umanità”. Non sa, non può sapere, che sta facendosi del male… Chi si contrappone a tutto ciò è l’artista visuale Marco Angelini, protagonista dell’esercizio numero 5, “Quello che non ricordo”.
Dialogando con la Mariani e accompagnandoci nella sua mostra, “Caleidoscopio, la memoria e l’oblio”, Angelini sottolinea come le sue opere, fatte di oggetti ordinari e quotidiani, siano le depositarie di una memoria che si è sedimentata nel tempo in ogni nostro gesto, anche in quello, in apparenza, più insignificante e inconsapevole. L’opera d’arte diventa, così, momento di ricordo, di evocazione, diverso per ognuno di noi, perché ogni esperienza è diversa dall’altra, ci rende singolari oggi perché lo siamo stati ieri. E allora come meravigliarsi se nell’ultimo esercizio, il sesto, “La banda Stendhal”, alcune giovani amanti dell’arte decidono, ognuna a suo modo, di rubare un quadro di Angelini, durante il vernissage della sua mostra.
Non si può non sperare in un futuro in cui si farà di tutto, anche rubare in una mostra, per non perdere quanto serve all’uomo per rimanere uomo.Un ricordo, una memoria, le uniche ‘app’ capaci di connetterci con la nostra umanità. E alla regista che, alla Gregoretti, entra impertinente dentro la propria scena non resta che sorridere orgogliosa delle sue “ladre” di vita. Anche per questo ci piace auspicare alla versatile autrice che il suo ‘corto’ goda di buona fortuna, quando sarà presentato in concorso, a giugno, al “virtuale”, ahimè, International New York Film Festival.