Riprende la sua meritata tournée italiana “Una pura formalità”, che Glauco Mauri desume, rielabora e rende drammaturgia dall’omonimo film di Giuseppe Tornatore. Il commento di Angelo Pizzuto coincide con la rappresentazione dello spettacolo, lo scorso anno, al Teatro La Pergola di Firenze
Il mestiere del critico
CUORE DI KAMMERSPIEL
“Una pura formalità”, regia di Glauco Mauri, al Teatro Ghione di Roma
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Sia sotto il profilo della progettualità drammaturgica, sia rispetto ai canoni della contiguità poetica (anzi, ‘mitopoietica’ cosi com’è arcano, pervasivo il topos dell’uomo-fuggiasco), le teatrali coordinate “Una pura formalità” erano e restano – dal debutto alla Pergola al Ghione di Roma- un esemplare ‘campione\modello’ di sintesi dialettica: stringente stringata, claustrale. Sul fil-rouge di quella che Pasolini avrebbe definito la corrispondenza tra “linearità- dialettica del confronto a due” (così come sottile e implacabile, emerge, ad esempio nel suo “Pilade”) e visceralità delle sue implicazioni materiche, esistenziali, di ‘affronto’ realistico. Il tutto, nella più rigorosa osservanza delle unità aristoteliche di luogo, di spazio e di tempo, spontaneamente ricalcate dalla sceneggiatura del film.
Che ha inizio con la corsa, sotto la pioggia , all’estremità di un bosco, di un uomo (che scopriremo essere scrittore in disarmo) ‘riparatosi’ (casualità o atto inconscio?) all’interno di un remoto commissariato di polizia, dove un affabile, sinuoso ispettore si ostina a ‘ospitare’ in stato di fermo. Supponendo- anzi, nella quasi certezza- che egli sia responsabile di un omicidio avvenuto, quella stessa notte, in una villa nei paraggi della caserma.
Va da sé che l’indagato, riaffiorando dalle nebbie di una totale amnesia, non può che negare, aspramente, corporalmente ogni responsabilità, dimenandosi come fiera ‘catturata’ per un vuoto di memoria che sembra momentaneamente ridurlo ad un cencio stazzonato di tremore e perdita di dignità. Non sarà così. Stimolati come scariche elettriche dall’anziano capo.demandamento- infallibile metodo di ‘bastone e carota’, domande incalzanti come chirurgico bisturi- un barlume di ricordo, di ‘brivido colposo’ (quel saper distinguere ‘tra crimine e reato’ che è una delle chiavi esplicative dell’enigma) sortiranno gli effetti di un’invasiva sonda dell’anima: comunque costrittiva di una rivelazione (agnizione) che non farà che porre altri interrogativi, altri particolari secondo i quali ‘non tutto è concluso’.
Come qualcuno ricorderà, il film di Tornatore mirava in alto e non taceva di una certa ambizione mescolante espressionismo ed ipotesi metafisiche (grazie al magnifico gioco di luci, alla claustralità ambientale, alla ferrea performance di Gerard Depardiueu, Roman Polanski e del gran caratterista Tano Cimarosa nel ruolo del tozzo carceriere), contro cui insorsero critici di culto quali Fofi e Canova che giudicarono il tutto “un giallo senza movente,un dramma senza patos, un thriller senza suspence”, auto aggrovigliatosi nella congestione delle sue troppe piste narrative e con vezzi di cinefilie emulanti Melville, Clouzot, William Neil. Sovrapposte, o in concorrenza, sino a perdere il ‘filo del discorso’ e della sua congruità: nulla di condivisibile, almeno da parte nostra, poiché il film non dava e non prometteva (proprio per la sua ambizione) niente di più e niente di meno di quanto manteneva.
Avendo dalla sua parte fonti d’ispirazione (accennate, mai esibite) del carisma di Woolrich, Durrenmatt, Du Maurier e soprattutto Franz Kafka, emulsionati in una vicenda paradigmatica sino alla essenzialità dell’apologo e di un assunto (‘l’uomo che incontrò se stesso’) cui i risvolti omissivi, indagativi, di mera detection stanno a ‘corredo’ di una progressiva rivelazione analitica, tra flussi di coscienza e auto disinganno del ‘prigioniero’: come il tradimento’ di persona cui era grato, il raggiro che lo ‘rese’ un vagante, smemorato autore latitante da se stesso.
Elementi che molto ricordano la riflessione del filosofo Adorno, secondo cui la ‘vera sede del potere’ (che per l’uomo è tutto ciò che ha rimosso, che non può o non vuole ammettere, ridestare) sta nei tempi e negli anfratti dove ‘egli stesso’ meglio può appartarsi, passare inosservato. Cosa di meglio, quindi, che un simbolico, scalcinato, poco probabile ufficio di polizia ai confini della vita e della morte?
Nella traduzione scenica di “Una pura formalità”, Glauco Mauri assume sulle sue anziane (robuste) spalle quasi tutto il peso dello spettacolo, come un Atlante che regge un suo segreto mondo di quinte e cartapesta. Rovesciando il nocciolo della sceneggiatura in qualcosa di opposto, di ben più ‘sostanziale’, contiguo al teatro di tradizione, di esplicito artigianato (a costo contenuto) e del più nobile concetto di ‘capocomicato’. Riscattando e rafforzando (senza fronzoli diversi dalla parola diretta e inchiodante) la stesura di Tornatore: nella sua ‘smarrita’ essenza di apologo morale e perdizione dell’ego. Cui non servono verdetti metafisici o assoluzioni della ‘mondana’ giustizia.
Essendo ciascuno di noi- come lo smemorato scrittore che Roberto Sturno recita un pò ‘sopra le righe’- non ammesso ad alcuna spiegazione, assoluzione o espiazione ‘a divinis’; piuttosto, al pari dello stoico, perseverante Sisifo (giusto per restare fra archetipi a noi cari) costretto a disfare e ricomporre il suo bandolo di matassa, la sua ammuffita tela di Penelope sino all’insorgere di altri smarrimenti dell’ego, dell’identità, della memoria: bombardata dal soprassalto di nuovi e vecchi oltraggi. Dimentico di sé e di altre ‘formalità’ (comunque cruente, traumatiche), preposte a restituirlo all’assurdo ‘giogo’ dell’esistere per testimoniare.
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“Una pura formalità” di Glauco Mauri (anche regista)- versione teatrale dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore. Con Glauco Mauri, Roberto Sturno, Giuseppe Nitti, Amedeo D’Amico, Paolo Benvenuto Vezzoso, Marco Fiore. Scene di Giuliano Spinelli, costumi di Irene Monti, musiche di Germano Mazzocchetti. Teatro Ghione di Roma