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Agata MOTTA- Teatro Biondo di Palermo. Un dittico da Costanza Licata ( Sala Strehler)

 

Teatro Biondo di Palermo

 


UN DITTICO DA COSTANZA LICATA

Inaugura la stagione della Sala Strehler

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Sarà  il dittico La Fame/La Peste di Salvo Licata ad aprire la densa e promettente programmazione della Sala Strehler del Biondo, finestra già aperta da qualche tempo sulla drammaturgia siciliana e in particolare palermitana. Lo spettacolo, in scena da domani al 17 gennaio, torna al Biondo a 35 anni dal debutto, trovando nuova linfa nel taglio contemporaneo scelto dal regista Luca D’Angelo, nelle musiche, appositamente composte e cantate da Costanza Licata ed eseguite dal vivo dalla pianista Irene Maria Salerno, e in un cast di attori fortemente voluto dalla stessa Costanza perché, racchiudendo più di 40 anni di recitazione cittadina, rappresenta in qualche modo la Storia.

La Fame è un testo farsesco in cui i personaggi beckettiani si trovano in uno studio d’arte senza essere artisti, sono poveri disgraziati che cercano di sbarcare il lunario; gli stessi personaggi, che si dibattono tra il vuoto e il bisogno di affermazione identitaria,  sono presenti ne La Peste, scritto come un oratorio medievale per lettura a leggio e adesso per la prima volta messo in scena.

“E’ stata una bella sfida affrontare questi due testi, perché, da un punto di vista drammaturgico, è come se andassero a cozzare tra loro – afferma il regista – ma io ho avuto una visione taoistica dove sul bianco c’erano punte di nero e sul nero di bianco. Il filo conduttore è il tempo, in uno spazio in cui i personaggi diventano figure astratte e concrete, si nutrono del loro tempo anche se in realtà non mangiano da mesi.

L’operazione è stata quella di lasciare un’impronta panormita, che è quella degli interpreti, pur guardando ai grandi come Beckett, Brecht, Artaud”. Licata si conferma, dunque, nelle parole del regista, come autore di fortissima contemporaneità e la sua peste può essere sì la fame, la mafia, il terrorismo ma è soprattutto il Male in assoluto. D’Angelo accenna, infine, ad un epilogo che sancisce la presenza di un terzo momento spazio-temporale che va a spiegare, con un collage di parole di Licata, il fondersi dei due testi.

Costanza Licata non può fare a meno di esprimere la propria felicità per tutto il lavoro svolto e sottolinea, inoltre, che in entrambi i testi si parla di arte e di morte – tema quest’ultimo caro all’autore che citava a tal proposito una battuta di Flaiano “Dalla morte nessuno è uscito mai vivo” – con la tipica ironia palermitana che va a braccetto con la tragedia.

In scena, dunque, si alternano in più ruoli Stefania Blandeburgo, Gino Carista, Costanza Licata, Salvo Piparo e Mario Pupella, un insieme pregevole di interpreti di forte personalità che non nasconde il proprio orgoglio e la propria soddisfazione per l’esperienza vissuta attraverso il Teatro Biondo che ha prodotto lo spettacolo. Nel ricordare la scomparsa di David Bowie, grande trasformista, il regista plaude alla capacità dei suoi interpreti di cambiare pelle, di attraversare diversi ritmi e condizioni.

Le luci sono di Rudy Laurinavicius, i costumi dello stesso regista e le luci di Davide Riili.

“La mia idea era come impastare questi costumi – conclude il regista – essi inizialmente sono un arcobaleno che poi si va spegnendo, per avviarsi ad una rarefazione cromatica; il colore si asciuga, diventa secco nella sua essenza primaria fino a ridursi a luce”.