Il lungo addio / Crudeltà e bellezza a lume di candela. ‘L’idiota’ di Fëdor Dostoevskij al Teatro Out Off di Milano
@ Amelia Natalia Bulboaca (02-03-2020)
Da tempo ormai mi tormentava un’idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un’idea troppo difficile e ad essa non sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest’idea è raffigurare un uomo totalmente bello (prekrasnyj čelovek). Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto.
(da una lettera di Dostoevskij a Majkov, 12 gennaio 1868)
Milano – La platea è immersa nel buio ma a poco a poco lo sguardo è attratto da un fascio di luce che accarezza l’oscurità con dolcezza, accompagnando come un’aura la discesa di un uomo vestito elegantemente, i capelli color oro, il viso raggiante e sorridente. È «l’angelico ed etereo principe Myškin», rievocato nella messinscena firmata I Demoni, compagnia fondata da Alberto Oliva e Mino Manni, che da anni prosegue il suo approfondimento sull’autore russo con spettacoli tratti dalle opere immortali di Dostoevskij (vanno ricordati qui anche i lavori precedenti: La Confessione, Ivan e il diavolo, Il Giocatore, Il Topo del sottosuolo e Delitto e castigo).
Questa apparizione del Principe che sembra davvero caduto dall’alto – timida cometa – corrisponde alla figura che si staglia sin dalle prime pagine del romanzo: un passeggero del treno Pietroburgo-Varsavia, uno straniero precipitato nei destini di quelli del posto. Il Principe Myškin è un personaggio ambiguo, vertiginoso, incandescente. È l’immagine speculare di Cristo, è l’uomo totalmente bello, la cui idea tormentò a lungo il suo creatore, è l’outsider per eccellenza, il totalmente altro (ganz Anderes). Arriva all’improvviso da un altro mondo (la Svizzera) e getta scompiglio nella realtà di approdo. La sua unicità e non conformità con i modelli umani e sociali precostituiti lo rendono un paradosso, un superfluo martire – per gli altri resta, in fin dei conti, un idiota da compatire, un corpo estraneo da espellere (sarà infatti, rimandato in Svizzera, dopo essere ripiombato nelle tenebre del suo male).
La riduzione scenica – per ovvie limitazioni intrinseche legate alla necessità di sintesi della trasposizione drammaturgica – non segue la linea narrativa del romanzo. Tre i personaggi: quelli del triangolo fatale: Principe Myškin – Nastas’ja Filíppovna – Rogožin. Sul palcoscenico immerso nel chiaroscuro vediamo un volto incorniciato, a ricordare il famoso ritratto-icona di quella donna maledetta di possedere una bellezza davvero demoniaca («con una simile bellezza si può rovesciare il mondo»). Nastas’ja Filíppovna è l’incarnazione della follia di un’anima tormentata da impulsi e desideri contrastanti, è colei che si umilia per eccesso di orgoglio, una donna perennemente sull’orlo dell’abisso, che il principe vorrebbe salvare da se stessa e dal diabolico e passionale Rogožin, facendosi suo sposo. Il Principe Myškin è un Messia umano, troppo umano, che non si limita a consolare Maria Maddalena, ma addirittura con lei, per vocazione redentrice, vorrebbe convolare a nozze!
I personaggi dostoevskijani sono universi che non si lasciano facilmente decifrare e afferrare e il rischio di una riscrittura scenica (per quanto lodabile come iniziativa) sta proprio nell’inevitabile semplificazione dei personaggi. Il principe sembra un angelo buono e dolce. Si rivolge al pubblico prendendolo a testimone e cercandone la complicità: continua a ripetere di essere malato, goffo, impacciato e ridicolo – a volersi quasi scusare e giustificare del suo amore insensato per una donna perduta che alla sua ingenua bontà preferisce la frusta schioccante del tenebroso Rogožin. I due contendenti sono vestiti di bianco e nero rispettivamente, a simbolizzare la loro inconciliabile opposizione. Rogožin è irruento, domina fisicamente il gracile principe, potrebbe schiacciarlo in qualsiasi momento. I due si scambiano le croci, diventando così fratelli, uniti da un unico destino di autodistruzione. Più che a un fratello, il tellurico Parfën Rogožin fa pensare al gemello maligno, alla parte rapace e dionisiaca, in eterno contrasto (ma anche reciproca eccitazione, come insegna Nietzsche) con la dimensione apollinea, qui rappresentata dal principe Lev Nikolàevič Myškin. Un’inclinazione al delitto specchiantesi un una inclinazione all’autoimmolazione. Se fosse angelo, il principe sarebbe un angelo decaduto, un angelo che si è spezzato le ali o un Cristo contaminato da troppa umanità. A Nastas’ja Filíppovna dichiara candidamente il suo amore incondizionato ma in realtà la teme, teme la sua follia, ha paura del suo volto. La vuole salvare proprio perché sa che lei è perduta definitivamente e questo strano amore del Principe assomiglia molto a una sconfinata e quasi sovrannaturale pietà: la bellezza che salverà il mondo (da lui profetizzata) sta proprio in questo sguardo pieno di pietà e di amore per i dannati, per gli umiliati e offesi, per gli scarti dell’umanità, per i paria (come la sfortunata Marie, la povera tubercolotica che il principe riesce a strappare alla persecuzione). Il mondo cristiano venera con ostentazione (ritualmente, dunque formalmente) le piaghe di Cristo mentre il Messia insegna di amare le ferite del nostro prossimo, quello che troppo spesso facciamo finta di non vedere, in una ormai universalmente conclamata assuefazione all’indifferenza.
Le piaghe occupano un posto di rilievo in questo allestimento. Sono quelle del Cristo dipinto do Holbein, un quadro dalle proporzioni ingombranti (ci si chiede se era davvero necessario portarlo fisicamente in scena). Il dipinto viene esibito, portato sulle braccia, accarezzato e infine appoggiato e dimenticato perché al terribile interrogativo del principe – che cosa passa mai nella testa di un dio morto? – non ci sono risposte che tengano. Il Principe Myškin – nella sua imitatio Christi – incarna una frattura insanabile, uno scandalo ma anche una morbosità e un’anomalia. Parla su una nota così alta che i suoi interlocutori fanno fatica a sintonizzarsi. In lui c’è un sovrappiù di amore, di mitezza che rischia di essere ridicolizzato o guardato con l’imbarazzata compassione che si prova per una persona malata. Il principe Myškin è affetto dal mal caduco ma le sue crisi epilettiche sono considerate una benedizione, un dono (come in Pascal), un momento di mistica fusione con l’assoluto, di annullamento di tutto ciò che è tempo e vile materia:
Se in quel minuto secondo, cioè nell’estremo attimo cosciente prima dell’accesso, riusciva a dire a se stesso con lucida consapevolezza: «Sì, per questi momenti si può dare tutta la vita!», allora, certo, quel momento doveva valere da solo tutta la vita (…) durante quel secondo riusciva a dire a se stesso che, per la illimitata felicità da lui goduta, un secondo simile poteva magari valere la vita intera.[1]
Il crollo del principe sul palco si vuole un momento di pura angoscia: il corpo comincia a torcersi convulsamente nella morsa della crisi ma l’estasi mistica sulla quale Dostoevskij (lui stesso affetta da epilessia) si sofferma nel libro, qui non trova eco. Il braccio assassino di Rogožin che era già pronto a colpire deve arretrare, ma da questo momento ci sarà una fuga inarrestabile verso l’inevitabile rovina.
Teatro Out Off in collaborazione con I DEMONI
Prima nazionale
L’IDIOTA
Il lungo addio / Crudeltà e bellezza a lume di candela
drammaturgia di Alberto Oliva e Mino Manni
da L’Idiota di Fëdor Dostoevskij
con Mino Manni, Giuseppe Attanasio, Emilia Scarpati Fanetti
Scene Francesca Ghedini
Costumi Marta Ossoli
Disegno luci Alessandro Tinelli
Assistente alla regia Francesco Colombi
Regia di Alberto Oliva
[1] F. Dostoevskij, L’idiota, Einaudi, Torino, 2014, pp. 225-226.