Il sodalizio difficile di Fellini e Flaiano
Breve storia della genesi delle sceneggiature scritte da Ennio Flaiano per Federico Fellini
@ Loredana Pitino (29-03-2020)
Fu per la fantasia che li accomunava che il nome di Flaiano (scrittore, critico teatrale e cinematografico, sceneggiatore, Premio Strega per Tempo di uccidere) si legò dal 1951 al nome di Federico Fellini: i film a cui lavorano assieme vivono tra la fantasia, il ricordo e il sogno a tal punto che i vari livelli si mescolano l’uno con l’altro fino a rendere difficile la comprensione a uno spettatore che cerchi la logicità assoluta. Le storie che Flaiano racconta e, in particolare, quelle che scrive con Fellini, sono delle fiabe dietro le quali non è difficile scovare la metafora.
L’incontro con Fellini risale al 1950, quando si trovarono a lavorare assieme, ambedue come sceneggiatori, al film Luci del varietà con la regia Alberto Lattuada. Prima di allora Flaiano aveva già fatto la sua strada nel cinema. Nel 1951 Flaiano si ritrova accanto a Fellini per lo Sceicco bianco. In un primo momento il film era stato affidato alla regia di Michelangelo Antonioni, poi la casa di produzione LUX ne acquistò i diritti e affidò la regia a Fellini, il quale, in un primo momento fu molto spaventato dalla responsabilità affidatagli.
Il rapporto con Fellini non fu per Flaiano costruttivo; egli stesso dichiarò più volte di sentirsi usato, esattamente come “una lattina di Coca Cola, vengono qui, intingono la cannuccia e tirano, mi sento derubato” (Ennio amico mio, di P. Smoglica). Il connubio fra i due eccentrici artisti fu molto poco pacifico, perché le loro personalità erano molto simili, orgogliose, intelligenti, originali: ma quella di Fellini prevalse. Fellini, come Flaiano, era nato in provincia, a Rimini e anch’egli, giunto a Roma, inizia a lavorare per un giornale satirico, il “Marc’Aurelio”. Quello che li legò fu soprattutto un’affinità geniale che li contraddistinse: geniale e insieme dilettantesca, di artisti che fanno il proprio lavoro prima di tutto per diletto.
Solo che la forte esuberanza di Fellini prevaricò l’intuito di Flaiano e Flaiano ad un certo punto avanzò una rivendicazione del proprio lavoro molto trasformato, troppo, nelle mani del regista Fellini il quale tendeva a rimaneggiare le sceneggiature fino a stravolgerle, facendo del film un’altra cosa, una cosa tutta sua, dove non c’era più niente e nessuno che non fosse lui e solo lui. Malgrado ciò, il sodalizio tra colui che è stato definito “il mago” del cinema italiano e l’osservatore “satiro”, durò per quindici anni: quindici lunghi, litigiosi e meravigliosi anni a cui non solo il cinema ma l’Arte tutta resteranno per sempre debitrici.
A capo di questi tre lustri sta Lo sceicco bianco col quale inizia un percorso narrativo, un unicum che è composto da vari momenti rappresentati dai film che Flaiano scrisse per Fellini. Con Lo sceicco bianco entriamo per la prima volta nel mondo dello spettacolo che rimane una costante, dove più dove meno, in tutti i loro film. Qui siamo esattamente tra i produttori e gli attori di fotoromanzi accompagnati da una fanciulla che invaghitasi del divo delle sue letture preferite, durante il viaggio di nozze, lascia il marito per vivere un’avventura con il personaggio dei suoi sogni, “lo sceicco bianco” sulla spiaggia di Fregene. Il fotoromanzo era nato in Italia nel 1947, prodotto dalla Mondadori per il nuovo settimanale “Bolero film” anche se già “Grand hotel”, l’anno prima, aveva lanciato la novità del romanzetto rosa a puntate corredato da immagini che erano però ancora dei disegni, essendo così un fumetto per adulti, anzi per adulte. Il nuovo genere che aveva antenati nel feuilleton ottocentesco, ebbe subito un immenso successo, paragonabile a quello che attualmente hanno le serie TV, con relative infatuazioni per i divi e stati di delirio.
Con questo film Flaiano e Fellini non persero l’occasione per compiere la loro satira di costume e così c’è la sposina provinciale con gli abiti nuovi, che riesce a incontrare il suo Fernando Rivoli, l’uomo dei sogni, e lo vede, per la prima volta, dondolarsi su un’altissima altalena, come una visione, come un angelo. L’esperienza eccitante di trovarsi coinvolta nelle riprese per i nuovi episodi, la stordisce al punto da non notare l’inconsistenza artistica e morale del suo eroe e, presa dal delirio dell’innamoramento, dimentica il marito che, intanto, la cerca disperatamente.
Il film non ebbe successo, né di critica né di pubblico: non piacque per la novità che la storia recava con sé. Alla Mostra di Venezia del ’52 fu fischiato: i produttori pensarono che fosse Alberto Sordi a non andare bene per il ruolo dello sceicco, e lo credettero a tal punto da vietare a Fellini di mettere il nome di Sordi in cartellone per I Vitelloni; l’attore stesso ha dato un’altra spiegazione più verosimile, che, cioè, si fischiasse non il film stesso ma proprio la critica di costume fatta in esso e, probabilmente, i fischi venivano da lettori di fotoromanzi, come leggiamo in un’intervista di Lietta Tornabuoni ad Alberto Sordi del 1980.
Benché la prima esperienza cinematografica di Fellini fosse andata male, egli volle riprovarci: aveva in progetto di realizzare un film con Giulietta Masina che aveva conosciuto alla radio e sposato. Il film che Fellini voleva fare era La Strada, ma ai produttori non piacque, cercavano qualcosa di fresco, di giovane, così Fellini ci pensò su, chiamò Flaiano e preparò I Vitelloni. In una dichiarazione alla stampa, Flaiano spiegava “… il termine vitellone era usato ai miei tempi per indicare un giovane di famiglia modesta, uno studente, sfaccendato e parassita”. Proprio questi sfaccendati perditempo sono i protagonisti del film del ’53: cinque amici che trascorrono le loro giornate in una piccola città di una non identificata provincia sognando di evadere, di avere una grande fortuna, non accettando modesti lavori o piccoli impieghi, aspettando una chiamata da Roma o da Milano, un lettera che offra un’occasione, ma non fanno niente per procacciarsela. Anzi si prendono gioco, con grande viltà, dei lavoratori. Chi non ricorda la battuta messa in bocca a Sordi “Lavoratori della mazza!?” con il relativo gesto di insulto? Insomma, anche qui è stato ritratta una società sbandata, con i figli viziati di una borghesia non benestante, ma dignitosa. Alberto, Leopoldo, Riccardo, Fausto, Moraldo sono degli inetti e sono stati creati seguendo quel carattere, ma la loro inettitudine non ha nessuna giustificazione; non c’è una causa filosofica o psicologica. Sono personaggi stanchi, ma stanchi di niente. Né in Flaiano né in Fellini c’è un qualche atteggiamento di condanna per questo comportamento, ma semplicemente il gusto di raccontare una realtà provinciale, il divertimento dell’osservazione di questi atteggiamenti “vitelloneschi”.
Il film fresco e giovane che il produttore aveva chiesto a Fellini ebbe un grande successo, fu l’opera rivelazione che permise al grande regista di ottenere la fiducia per realizzare La Strada. Questo è, senz’altro, il film più bello di Fellini e quello in cui viene fuori il Flaiano più intimo, più pacato; la sua ironia consueta si smorza per essere sostituita da una grande tenerezza. E’ un prodotto diverso dagli altri, non è surreale, o lo è, ma in un modo molto diverso: è una poesia, una lirica toccante, non nelle immagini, non nei gesti e negli sguardi smarriti che Giulietta Masina diede a Gelsomina, non nella musica di Nino Rota, non solo. Tutto ciò venne dopo, sul set, nei teatri di posa. Nelle parole di Flaiano c’è la potenza di una poesia-favola triste, malinconica eppure sommessa, sussurrata. Siamo anche qui nell’ambito dello spettacolo, nel mondo circense, ma non ci sono intellettuali annoiati, non c’è una gioventù sbandata. Anche il circo non è uno di quelli da grandi tendoni colorati e gli animali agghindati di nastri e sonagli; è un carrozzone dove gli artisti si esibiscono nelle periferie gelide con pochi spettatori e dove la gente consuma una vita di miseria e di degrado sulla strada.
Ci fu una preparazione minuta, attenta ai fatti della realtà per cui ci si sarebbe aspettati un prodotto realistico, come era di moda nel cinema, ma La strada fu tutt’altro che questo. Flaiano e Fellini detestavano il realismo fotografico, scrupoloso che faceva dei film un documentario privo di un filtro personale, senza creazione e fantasia. Per fare del cinema un’arte bisogna prendere la realtà e sollevarla da terra: ne La strada fu sollevata di un paio di palmi, gli altri film saranno sospesi a centinaia di metri.
Conclusasi l’osservazione sul mondo degli artisti girovaghi, Fellini, Pinelli e Flaiano si misero all’opera per un’inchiesta sull’ambiente della prostituzione. Così nacque Le notti di Cabiria dove quella che nella Strada era tristezza diventa disperazione, vista senza intendimenti edificanti o retorici, sempre con un’aria quasi divertita. La cameriera di casa Flaiano era stata trovata morta, decapitata a Castel Gandolfo. La cronaca diede a Flaiano lo spunto per il finale del film. Cabiria, nelle ultime scene, è condotta dal fidanzato, che si è fatto dare da lei i soldi ricavati dalla vendita della baracca, nel bosco per essere gettata nel lago. Anche se Cabiria, alla fine, capisce e si salva, il finale tingeva di un tono drammatico tutto il film. Fu proprio Flaiano a volere che la donna non morisse per condurre la vicenda fino a farle sfiorare la tragicità e poi la risolve con gli insulti che i ragazzacci lanciano alla prostituta.
A questo punto Fellini chiese a Flaiano di inventare un racconto ambientato nella società dei caffè vista con gli occhi di un giornalista di provincia, giunto a Roma per lavorare. Niente di meglio per Flaiano, giornalista pescarese, che comincia a ripensare se stesso. Il film è La dolce vita che mette in scena, assieme a Otto e mezzo, il tripudio di una società “sguaiata, che esprime la sua voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita” (Flaiano, Fogli di via Veneto). E’ più che noto che La dolce vita è stato un film simbolo dell’Italia del benessere, perché rappresentava lo stile di vita che si stava diffondendo nel Paese. Negli anni ’50, gli anni della ricostruzione, dopo gli stenti della guerra e del dopoguerra, aumentava il consumo della carne e dello zucchero; cominciarono a circolare le automobili, in special modo la Seicento, tanto amata da Flaiano, specie se bianca; le periferie si popolavano di scatoloni a dieci piani dai cui tetti emergevano come periscopi per sommergibili, sempre più numerose, le antenne della TV. La vita, da amara e faticosa, diventava apparentemente dolce e più spensierata. Si vendevano i giornali rosa e i luoghi mondani pullulavano di giornalisti e fotografi a caccia di nuovi flirt tra divi o di feste piene di personaggi importanti. Di tutto questo il film di Fellini si fa emblema e icona.
I fotografi, dalla Dolce vita in poi saranno detti paparazzi, da nome dell’amico di Marcello, il protagonista. “Per questo fotografo non sappiamo che inventare finché aprendo a caso quell’aureo libretto di Georges Gessing che si intitola Sulle rive dello Jonio troviamo un nome prestigioso: Paparazzo” (Fogli di Via Veneto).
Un altro elemento tratto dalla realtà politica, con ripercussioni su quella sociale, che nel film è presente è quella del fanatismo religioso alimentato da visioni e miracoli, anch’essi, ovviamente, sfruttati per fare notizia. Attorno al presunto miracolo degli invasati che vedono la madonna, c’è la speculazione di chi si precipita sul posto per vendere panini e bibite, quella dei fotografi che spingono i parenti al pianto per avere delle immagini commoventi, ma c’è anche la sofferenza di chi spera in un miracolo. Dall’altro lato c’è la diva giunonica americana, bellissima e svampita che con la sua doccia nella fontana di Trevi ci ha dato l’immagine più famosa del film. Il miracolo è la speranza dei poveri, la diva hollywoodiana è l’illusione dei borghesi.
Qui Flaiano aveva lasciato uno spiraglio di luce per Marcello: quella ragazzetta bionda, che in conclusione della storia il protagonista incontrava sulla spiaggia, la piccola Paola cui egli corre dietro abbandonando gli amici che rappresentano la catena che lo stringe. Fellini ha negato a Marcello anche questa speranza: il mare e il vento, coi loro rumori, non permettono il dialogo tra i due, così per il giovane giornalista non resta più possibilità di uscita da quel girovagare tra bar e feste mondane.
La dolce vita piacque e molto. Ma fu giudicato scandaloso per l’atteggiamento provocatorio in genere e per certe scene in particolare, come quella dello spogliarello. Più di tutti si mossero contro il film la stampa cattolica e quella neofascista. La cosa non turbò Fellini anzi lo divertì e lo stimolò a una nuova creazione.
Con Flaiano e Pinelli progettarono una piccola vendetta contro i moralisti gretti e bigotti che avevano gridato allo scandalo. Per il secondo episodio del film Boccaccio ’70, Le tentazioni del Dottor Antonio, immaginarono che il protagonista, tale Antonio Mazzuolo fosse perseguitato da una bambolona gigante, in un succinto abito da sera nero che dalla gigantografia piantata di fronte alle finestre del suo appartamento, lo turbasse e lo inquietasse. Lui, rigido moralista, che si rivolge alle autorità laiche ed ecclesiali perché quell’oscenità venga tolta dal luogo pubblico dove è messa, nel profondo è attratto irresistibilmente da lei, la ama, la sogna, la vuole possedere. Nell’atteggiamento e nelle parole del Dottor Antonio c’è tutta la sessualità distorta e repressa di certi personaggi cattolici.
Fellini aveva girato fino ad allora otto film più una co-regia. Con compiaciuto autobiografismo sceglie di intitolare il film successivo Otto e mezzo. Con questa pellicola Fellini ottenne il suo terzo Oscar, ma per Flaiano questo premio rappresentò l’ennesima delusione: ebbe il Nastro d’argento per la sceneggiatura ma i suoi colleghi ci testimoniano che desiderava immensamente l’ambita statuetta d’oro, e l’avrebbe meritata. Otto e mezzo è il film dove Flaiano c’è ancora tanto, ma c’è troppo Fellini nella pellicola. In un certo senso, con Otto e mezzo furono ripresi ed esasperati i temi della Dolce vita; anche se l’ambiente geografico viene spostato da Roma a una stazione termale, l’ambiente sociale è lo stesso. Il giornalista è diventato regista, è pieno di ricordi ed incubi e si è spostato da Roma per guarire dalla malattia che lo perseguita, la malattia che è sempre la stessa: la noia.
La mondanità e la frivolezza vanno in vacanza anche loro ma non si attenuano, anzi: nel film c’è un’esplosione di cappellini e copricapo d’ogni genere e di inutili chiacchierii. Ma accanto alle cose frivole c’è una processione di pretini e pretoni, prelati e cardinali coi loro segretari: assillante presenza dell’autorità ecclesiastica dovuta a quella irrimediabile educazione cattolica restrittiva cui fu soggetto Flaiano e di cui Fellini non fu immune.
Con Otto e mezzo i rapporti tra Flaiano e Fellini si incrinarono sempre più. Fecero ancora un film assieme, Giulietta degli spiriti, la storia di una moglie tranquilla che una sera comincia a sospettare che il marito la tradisca e il sospetto diventerà poi certezza. Gli spiriti di Giulietta sono tutti i suoi ricordi, gli incubi, le ossessioni maniacali che popolano la sua vita in quel momento di sconforto. Anche qui c’è l’ossessione religiosa vissuta nel ricordo della santa che lei, bambina, avrebbe dovuto interpretare nell’atto supremo del martirio, in una recita scolastica. Alla fine Giulietta accetta la realtà ma si abbandona a un’irrazionale speranza di vita che le permetterà di scacciare gli spiriti dalla sua anima.
Il 1965 fu l’anno in cui Flaiano si divise da Fellini perché decise di non lasciarsi più prosciugare e lo abbandonò definitivamente. Dopo il distacco rimase l’amicizia basata su una reciproca stima, sono state conservate le lettere che i due si scrissero negli anni successivi e sono tanti i riferimenti nostalgici ai giorni di lavorazione dei film, in particolare La dolce vita. Ma non poteva bastare questo a tenerli insieme: Fellini prevaleva su tutto e Flaiano aveva bisogno del suo spazio.
In un’intervista a Carlo Mazzarella del 1960 Flaiano dichiarò: ”Fellini è un’eccezionale artista, impresario e mago. Potrebbe essere anche un ottimo ministro degli esteri. Ma la sua arte che Pasolini definisce neo-decadente, ha bisogno di simboli, e per non sbagliare deve mettere tartufi in ogni portata, arricchire di salse. Io mangio in bianco”.