In omaggio al grande filosofo appena scomparso a 91 anni, proponiamo due riflessioni di ampio respiro, tratte dai siti del corriere della sera e il manifesto (che ringraziamo)
EMANUELE SEVERINO
L’ORDINE DELL’ESSERE E IL DESTINO INCERTO
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È stato certamente uno dei volti più autorevoli della filosofia italiana negli ultimi decenni. Emanuele Severino era un nome noto anche a quanti non sono soliti seguire le dispute filosofiche. Chi non ha avuto modo di sentire un suo intervento alla televisione, alla radio, e infine anche sul web? Senza dimenticare le sue conferenze sia nei tradizionali luoghi accademici, sia nelle piazze — come al Festivalfilosofia, dove anche nelle edizioni più recenti accorrevano giovani e meno giovani, colleghi, insegnanti, studenti da tutte le parti d’Italia per ascoltare le sue parole.
Severino aveva la capacità, purtroppo sempre più rara, di mantenere registri diversi. Sapeva usare con sapienza e rigore la terminologia filosofica nei saggi dedicati alla metafisica classica; ma interveniva anche sulle questioni urgenti dell’attualità politica e culturale, come ha dato prova tante volte su queste colonne. Soprattutto riusciva a far comprendere, con un linguaggio piano e accessibile, i grandi temi della filosofia, da quella greca a quella contemporanea, rivolgendosi anche al pubblico dei non-filosofi. Era un modo per coinvolgere tutti, era un appello alla lettura e al confronto, era un modo per testimoniare la necessità della filosofia nella complessa realtà di oggi.
Il che non gli ha impedito di esprimere, anche negli ultimi tempi, tutti i suoi dubbi e le sue perplessità su una politica non più in grado di fronteggiare le grandi sfide, una politica sempre più ridotta alle sue funzioni amministrative, subalterna all’economia, a sua volta lanciata in una competizione epocale con la tecnica. Chi avrà la meglio? Il capitalismo seguiterà a sfruttare le potenzialità offerte dalla tecnica o finirà piuttosto per soccombere? Il progettista scoprirà allora di essere progettato. Che ne sarà del mondo finito nelle mani della tecnica, un meccanismo incontrollabile, un ingranaggio autonomo? Il XXI secolo non lascia ben sperare.
È stata la «tecnica» la parola chiave di Severino, il filo conduttore di un lungo e articolato cammino attestato in decine e decine di volumi. Indubbia è l’eco di Heidegger, il filosofo tedesco che, interlocutore tacito o esplicito, ha accompagnato sin dagli anni Cinquanta la sua riflessione, senza mai comprometterne l’originalità. In opere come Essenza del nichilismo (1972), Gli abitatori del tempo (1978), Tautótes (1995), La potenza dell’errare (2013), Severino spiega l’oblio dell’eternità, la triste condanna dell’Occidente che — malgrado il monito di Parmenide: solo l’essere è — si è consegnato al divenire, al tempo e al suo dominio, che inghiotte tutto come in una vertigine. Nulla resta. Questo nichilismo accelerato ed esacerbato ha investito interamente la civiltà occidentale — etica e religione comprese. E là dove tutto si fabbrica e tutto continuamente si distrugge, là dove tutto è nulla, la tecnica si è già installata. Assurdo pensare che sia lo strumento neutrale che un’umanità emancipata impiega a proprio vantaggio. Il soggetto moderno, che crede di disporne liberamente, dovrà prima o poi accorgersi di essere l’oggetto di una produzione illimitata, un fondo di riserva, un vuoto a perdere, in un mondo che è divenuto una fabbrica. Questa è l’alienazione più profonda che sia mai stata esperita, il male più radicale e tenace.
In questo «inverno della ragione» la filosofia ha abdicato al suo ruolo decisivo, assumendo un atteggiamento troppo difensivo nei confronti sia della scienza sia della religione. Severino si discostava da altri esponenti del nichilismo italiano — da Luigi Pareyson a Gianni Vattimo, per menzionarne solo alcuni — proprio perché rivendicava il carattere incontrovertibile del discorso filosofico.
Donatella Di Cesare
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LA FILOSOFIA è la messa in discussione dell’ovvio. Per Severino tutto parte dal senso di quell’ovvio che, anche etimologicamente (obvius, «ciò che ci viene incontro»), significa ciò che appare come la via scontata, quella che non ci si accorge neanche di percorrere. Ecco, per scalzare quell’ovvio, per Severino bisognava ritornare molto indietro, prima della filosofia, a Parmenide che, parlando anche lui di vie e di sentieri, ne indicava uno non percorso dai mortali dalla doppia testa, quello dell’essere. Ma allora, il senso dell’essere non è nient’affatto ovvio. È un essere, per riprendere le parole di Parmenide e del suo Poema, ánarchon, senza principio, come si suole tradurre, tradendo, senza dubbio almeno in parte, il significato cosmico-politico che l’arché assume nel contesto del pensiero della sapienza greca.
L’ESSERE È ANARCHICO significa che non si può assoldarlo a nessuna ideologia, a nessuna metafisica di salvatori e salvati. Arché nel greco classico significa «principio», ma, com’è noto, anche «ordine» nel senso di «comando». La rivoluzionaria concezione dell’ontologia che viene proposta dal Ritornare a Parmenide di Severino libera dalle antiche archaì, che tuttavia continuano a ripetersi fino a oggi, ossia dai falsi legami delle potenze e delle gerarchie del potere. Questi legami non possono essere comandati e, in seguito al comando, ordinati. Invece, l’ordine dell’essere, cioè la costellazione infinita dei suoi legami, è già da sempre nella determinazione stessa, senza dipendere da alcuna matrice, da alcun fondamento o condizione, da alcun controllo e imposizione sovrana, da alcun salvatore dei fenomeni o delle anime. L’essere, manifestazione ospitale di ciascun esserci, è, in questo modo, nella sua necessaria singolarità (nel suo destino, come Severino preferiva dire) assolutamente libero e intrinsecamente sciolto da ogni disciplina. È questo il panorama vertiginoso, al limite del senso, che la filosofia di Severino dischiude alla fine di un equivoco lungo tanto quanto un’intera epoca del pensiero.
Andrea Tagliapietra