Script & Books

Sauro BORELLI- Lavorare stanca (“La legge del mercato”, un film di Stéphane Brizé)


Il mestiere del critico

 

 

LAVORARE STANCA

La legge del mercato

“La legge del mercato”, un film di Stéphane Brizé

****

“Lavorare stanca”, la frase mutuata dall’omonimo libro di Cesare Pavese rende solo in parte il dramma sommesso, ma devastante cui è esposto Thierry, cinquantunenne disoccupato (con figlio disabile e moglie a carico) imbrigliato, all’inizio, nei rituali esasperanti dei curriculum e degli incontri di valutazione psicologica-attitudinale per trovare, dopo un lungo lasso di ricerca, un lavoro. Lavorare stanca, in questo caso, poiché una volta ottenuto lo sperato posto (un modesto ruolo di controllore del via vai dei clienti in un supermercato), si vede costretto ad agire come uno spietato guardiano delle merci in vendita, di quando in quando sottratte furtivamente da poveri individui.

L’ambientazione di questa vicenda intitolata La legge del mercato per sé sola abbastanza desolante, si rifà palesemente, in parte, all’intuizione dell’antropologo-sociologo francese Marc Augé che con bella invenzione ha parlato, a suo tempo, di “non luoghi” riferendosi a quegli spazi (in genere dilatati in grandi dimensioni) ove la gente si affolla, anonima e distratta, intenta a partire o ad arrivare (le stazioni, gli aeroporti) o a fare acquisti (vendere, comprare) nei supermercati, senza lasciare segno di una reale comunicazione, o, ancor meno, di una contiguità, una complicità minimamente connotata da qualche confidenza umana o affettiva.

In simili luoghi trova consistenza esteriore soltanto un simulacro di vita sociale tutto come è organizzato, preordinato un labile rapporto fatto di transazioni e ancora più precarie consuetudini. In tale contesto viene, dunque, a cascare il pur volenteroso (ma intimamente inappagato) Thierry che di giorno in giorno si vede risucchiato nell’amorale “morale” dei dirigenti del supermercato determinati ad eliminare quasi fisicamente gli attentatori della proprietà loro affidata (ci scappa in effetti persino un suicidio di una donna costretta in simile inferno). E ben decisi a recitare finanche la parte dei padri-padroni comprensivi, solidali, proprio mentre celebrano con i loro gesti ipocriti, la loro spietatezza cinica i riti di uno sfruttamento feroce.

Thierry pur preoccupato di mantenere il suo posto di lavoro assiste, connivente suo malgrado, a tante e tali ingiustizie anche se si fa progressivamente strada in lui un disgusto inesorabile per le soperchierie che un sistema commerciale esoso, irresponsabile pratica con retorica brutalità. Di giorno in giorno – in mezzo a episodi e a incidenti per sé stessi meno che banali ma puniti come chissà quali trasgressioni – lo stesso Thierry prende coscienza della sua colpevole complicità in tanto squallore e, un bel giorno, dimentico di ogni cautela o prudenza, riprende i propri panni e se ne va, insalutato ospite da quel “non luogo” di oppressione e di dolorose esperienze.

La legge del mercato viene ad essere dunque un film di denuncia che, come dicevamo più sopra, pure sommessamente senza strepiti e urla, lancia una perorazione dura, immediata contro l’assetto sociale, l’ingiustizia contingente di realtà come la Francia (e massimamente l’Europa in genere) ove il lavoro, l’occupazione e le pratiche a loro connesse sono caratterizzate da metodi e situazioni che spesso, nonostante l’argine della politica sindacale, gridano vendetta al cielo.

È vero, il film di Stéphane Brizé e, in inspecie, l’interprete dominante Vincent Lindon (già premiato come miglior attore a Cannes 2015) si impongono di forza in un serrato racconto tutto realistico sublimato in un finale di esemplare nettezza e sapienza drammatiche. Thierry, al colmo della sopportazione, chiude risolutamente il discorso: se ne va e basta. Arieggiante per qualche verso al cinema civile praticato senza tregua dai fratelli belgi Dardenne, La legge del mercato si raccomanda comunque autorevolmente per una sua autonoma espressività, un suo intrinseco vigore polemico.