Un linciaggio tribale. ‘Dio è donna e si chiama Petrunya’ di Teona Strugar Mitevska, presentato al TFF 2019
@ Simona Almerini (11-12-2019)
Petrunya vive in un piccolo paese della Macedonia, ha 32 anni, è laureata in Storia e perennemente disoccupata, condizione che la costringe a vivere con i genitori. Dopo l’ennesimo umiliante colloquio di lavoro, Petrunya girovaga per il paese arrivando nei pressi del fiume, dove si sta svolgendo la tradizionale processione dell’Epifania. Come è costume, i giovani del paese si buttano nell’acqua per recuperare la croce gettata dal prete. Petrunya senza neanche pensarci si getta nel fiume con l’intenzione di partecipare alla gara.
Dio è donna e si chiama Petrunya è un film che può risultare emotivamente faticoso per la spettatrice, che in qualche modo si identifica con la protagonista. È presente infatti un’aggressività fisica e verbale inedita nel cinema contemporaneo. E non ci si riferisce solo a quello occidentale, ma anche a quello di alcuni paesi del Sud del mondo dove la rappresentazione cinematografica della subordinazione femminile non raggiunge mai queste asprezze. Se in quei casi infatti la violenza è agita soprattutto dal singolo, nel caso di Dio è donna e si chiama Petrunya invece si tratta di una violenza collettiva che raggiunge il suo apice nella scena ambientata davanti al commissariato. Si assiste infatti ad un linciaggio in senso letterale dove la protagonista riceve insulti, percosse, sputi e perfino una secchiata di acqua gelata in testa.
Petrunya fin dall’incipit si sente sola. La sua è la solitudine della donna costretta a subire pregiudizi e soprusi persino nell’ambito dalla propria famiglia; la madre infatti se da un lato sembra davvero amarla e preoccuparsi per lei, dall’altro le rinfaccia continuamente di non essere come la vorrebbe e cioè magra, ubbidiente e ben vestita.
Il film ha una forte valenza simbolica della condizione quotidiana delle donne macedoni, non tanto per lo sviluppo della storia quanto per ciò che si percepisce nei margini narrativi. Se ci si aspetta una trasformazione catartica si rimarrà delusi, perché ciò che si respira dall’inizio alla fine è un senso di rarefatta frustrazione. Per esempio l’ipotetica alleanza tra Petrunya e la giornalista è un’occasione mancata. La protagonista non riesce a fidarsi veramente della donna, l’unica in grado di darle aiuto e solidarietà. La giornalista infatti, in quanto femminista, è consapevole degli invisibili meccanismi di repressione innescati dalla società patriarcale e pur di affermare le sue idee è disposta a tutto, anche a perdere il lavoro (merce rarissima in Macedonia). E così Petrunya, abituata ad essere diffidente verso il prossimo, preferisce che la sua battaglia rimanga solitaria anziché assurgere ad emblema di una problematica più generale.
La regista tuttavia non vuole privarci di un barlume di speranza e così negli ultimi due minuti si apre la prospettiva di un futuro per Petrunya, perché si sa che l’amore ha la meglio su tutto.