La correzione di Thomas Bernhard o dell’incorreggibilità dell’origine, ed. Einaudi
@ Amelia Natalia Bulboaca
Thomas Bernhard è uno di quegli autori per i quali si possono provare solo sentimenti estremi: o lo si ama perdutamente, o lo si odia con tutte le viscere. Bernhard è uno scrittore scomodo che ha scandagliato con occhio impietoso e lucido tutti gli abissi della follia dell’uomo, rivelandone la tragicità portata alle ultime conseguenze: il comico. Pochi autori sono andati così lontano, pochi sono stati così caparbi nel decifrare il mysterium del vivere, così meticolosi e rigorosi nell’opera di svelamento del fondamento dell’essere: il nulla. Un nulla talmente vasto da risultare assolutamente comico, dionisicamente fatale, risucchiante tutti i vani tentativi di chiarificazione razionale, sfasciante tutte le briglie della logica e del buon senso.
La correzione, Korrektur, vede la luce della stampa nel 1975. Sulla bandella dell’edizione Einaudi (1995), leggiamo: «Culmine poetico-stilistico della produzione di Thomas Bernhard, dopo Gelo, Perturbamento e La fornace, Correzione (1975) è considerata dalla critica l’opera più coerente e più complessa dello scrittore».
Difficile affermare con assoluta certezza quale sia l’apice poetico-stilistico di un autore la cui scrittura non abbandona mai le vette. Chi comincia a leggere Bernhard si trova ben presto avvoltolato nelle sue atmosfere demenziali, paranoiche, ripetitive, ipnotiche e rischia di contrarre una pericolosa e incurabile bulimia letteraria. Si comincia allora a divorarne tutta la scrittura, dal romanzo alla poesia, passando per il teatro, e si scopre che ciò che affascina e ammalia è la capacità di questo mostro letterario di partorire migliaia e migliaia di pagine attorno a un unico, inscalfibile nucleo di ossessioni.
Si fa presto a dire che Bernhard sia un autore pessimista che tratta temi in fondo indigesti e scomodi come la follia, la morte, la solitudine, l’insonnia, l’infelicità, il fallimento in tutte le sue iridescenti e grottesche sfumaturema è proprio il suo stile martellante, ripetitivo, insistente a regalare al lettore un piacere a dir poco perturbante, o un «cosiddetto» piacere perturbante (per riprendere una di quelle parole che l’autore usa in maniera demenzialmente ripetitiva in tutte le sue opere).
Come negli altri romanzi, anche qui la trama è abbastanza smilza, pochi i personaggi. L’io narrante racconta la parabola umana di Roithamer, austriaco originario di Altensam e docente di scienze naturali a Cambridge. Posseduto da un’unica, grande ossessione, quella di costruire un’abitazione a forma di cono all’amata sorella («Alla fine tutto è il cono»[1]), Roithamer finisce con l’essere fatalmente consumato dal suo inaudito progetto edilizio che doveva sorgere «esattamente nel punto geometrico da lui stabilito al centro del Kobernausserwald»,[2]«nel quale sua sorella dovrà abitare in futuro ed essere felice, essere al culmine della felicità».[3]In preda a una forsennata opera di correzione dei suoi scritti autobiografici vergati in seguito alla morte della sorella, a sua volta distrutta dalla follia del cono, Roithamer finisce inevitabilmente suicida «perché era predisposto alla pazzia, predisposto sottolineato».[4]
Questa fatale predisposizione alla pazzia è uno dei temi ricorrenti nei romanzi di Bernhard. In Korrektur, l’autore la esplicita con perizia psicanalitica a partire dal travagliato rapporto di Roithamer con le proprie origini. L’origine come fatalità, come maledizione primordiale, come catena indistruttibile che sfocia necessariamente nell’annientamento dell’individuo o anche di un intero popolo, è un tema che avvicina molto Bernhard a un altro mostro sacro del disincanto e della lucidità: Emil Cioran,«il funambulo dell’intollerabile». Anche Cioran dedica molte, infiammanti pagine a questa predestinata predisposizione dell’essere umano al fallimento, iscrivendola gnosticamente nel solco della maledizione originaria, primordiale: quella della cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino. Inoltre, in tutti e due gli autori è presente anche il tema dell’esecrazione delle proprie origini nazionali: per Cioran, i romeni sono un popolo di falliti senza storia, per Bernhard «l’austriaco è un fallito già al momento della sua nascita»[5].
Roithamer−personaggio liberamente ispirato al filosofo Ludwig Wittgenstein−è l’unico dei quattro figli a essersi liberato dalle catene annichilenti delle proprie origini, diventando uno scienziato rispettabile in Inghilterra. È l’unico a rendersi conto che la salvezza sta nel lasciarsi tutto alle spalle e fuggire il più lontano possibile dal proprio luogo d’origine; è la pecora nera della famiglia, il non assimilabile, il completamente altro. La sua diversità e la sua renitenza si palesano ben presto sin dall’infanzia, facendolo diventare il bersaglio prediletto delle punizioni dell’esecrata progenitrice:
Bisogna potersi alzare e andare da tutte le compagnie che non servono a niente, così Roithamer, e lasciarsi dietro le facce che non dicono niente e le menti spesso di una stupidità senza fine, uscire, andarsene via, lontano»[6]. Sembra quasi di sentire Vincenzo Consolo che in quel capolavoro di finezza stilistico-letteraria che è Retablo(1987), al protagonista, l’artista settecentesco milanese, Fabrizio Clerici, inorridito dalla meschinità della sua natia Milano, faceva fare delle considerazioni molto simili: «Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan![7]
Purtroppo si va via troppo tardi e, come riteneva anche Cioran, ci si suicida anche troppo tardi visto che alla fine la maledizione dell’origine ghermisce anche la vittima più indomita: Roithamerera dotato di lucidità e razionalità taglienti
eppure, ovunque si fosse diretto e ovunque si fosse rifugiato, aveva subìto lo svantaggio derivante dal luogo e dal paese in cui era nato e dalla conseguente disposizione sempre depressa della sua natura, causata dalla natura del suo luogo d’origine, e come vediamo, dissi a Höller, alla fin fine Roithamer si è poi suicidato, aveva tentato di fuggire a se stesso andando in Inghilterra perché ne aveva le possibilità (finanziarie), ma non gli era servito a nulla, era dovuto morire, a suo modo, esattamente come gli altri, quelli che non hanno possibilità di andare via e fuggire, dissi»[8]D’altronde, in Roithameragisce impietosamente il morbus austriacus: «quest’arte popolare, così la chiamo, dissi a Höller, di volersi uccidere in continuazione.[9]
La fuga riguarda l’origine come luogo fisico, geografico ma soprattutto, il mondo dei genitori, i legami di sangue, la tirannia dei geni. Quale immagine più evocativa della schiavitù verso i propri ascendenti e discendenti di una catena di DNA? Lo dice la parola stessa: catena! La sadica natura sembra essersi premunita di avvolgerci in una doppia catena contro ogni possibilità di evasione – e infatti l’impresa di Roithamer di sfuggire al mondo dei predecessori è destinata al fallimento, nonostante la lucidità con la quale ne afferra i meccanismi:
Entriamo in un mondo che ci è dato ma che non è preparato a noi e dobbiamo venire a capo di questo mondo, se non veniamo a capo di questo mondo andiamo in rovina, ma se non andiamo in rovina, quale che sia la nostra natura, dobbiamo prendere provvedimenti, dobbiamo trasformare questo mondo che ci è dato e che non è preparato per noi e a noi, questo mondo che comunque, poiché è fatto dai nostri predecessori, vuole aggredirci e distruggerci e infine annientarci, questo mondo non ha in mente nient’altro per noi, dobbiamo trasformarlo in un mondo secondo i nostri intendimenti e tentare e ritentare più e più volte di trasformare questo mondo secondo i nostri intendimenti, dapprima restando sullo sfondo, senza farci notare, ma in seguito con tutta l’energia possibile e molto apertamente, in modo da poter dire, dopo qualche tempo, viviamo nel nostro mondo, non in quello che ci è dato, che è sempre un mondo che non ci riguarda e che vuole distruggerci e annientarci (…) Poiché infine, al termine della nostra vita possiamo dire, almeno per un momento abbiamo vissuto nel nostro mondo, e non in un mondo che ci è stato dato dai nostri genitori»[10]. Infatti, incalza la spietata analisi di Roithamer esistere e morire in un mondo non proprio, ma in quello che ci viene imposto dai nostri genitori «è la più grande delle vergogne»[11]. C’è da dire che Roithamer era anche fatalmente attratto dall’orrore della sua Altensam e che, dopotutto, non poteva fare a meno di quel rapporto di odio simbiotico che lo teneva incatenato alla madre, che sprezzantemente chiamava la eferdinghese: «Ma forse era proprio questa reciproca possibilità di tormentarsi, quest’odio reciproco, questa reciproca disponibilità a tormentarsi che mi ha sempre fatto correre dall’Inghilterra ad Altensam, così Roithamer[12]
Non mancano in questa allucinante opera di decostruzione del reale −«la tendenza oggi è contro il pensiero ed è per la finzione, come in genere tutta quest’epoca in cui viviamo è finta, tutto è finto, nulla è reale, tutto è finto»[13]− le tipiche surreali scene bernhardiane nelle quali il comico raggiunge vette parossistiche, trascinando il lettore in una risata totalizzante, dissacrante, l’unica che sembra riscattare nella sua intrinseca follia la follia e l’assurdità del vivere. La scena del curioso salame di gomma che ossessiona l’io narrante, amico di Roithamer e dell’imbalsamatore Höller, nella cui soffitta Roithamer aveva lavorato alla sua titanica opera di progettazione del cono, appare emblematica in questo senso:
Ma il salame di gomma fatto con il cavo sulla parete mi disturbava e staccai dalla parete il salame di gomma fatto con il cavo, era nero e pesante e diedi un paio di frustate nell’aria, ripetei più volte questo gesto di dare frustate nell’aria e nel frattempo guardai fuori dalla finestra per vedere se qualcuno mi osservava. E se dessi un colpo con questo salame di gomma, pensai d’un tratto, sulla scrivania?»[14].
Rimane da fare un’ultima riflessione sul nucleo filosofico di questo grande romanzo. Perché Roithamer incita all’abbandono delle insulsaggini del mondo e delle persone, perché il suo giudizio è netto e senza appello contro «i crimini verbali», contro «tutti questi argomenti insensati, inutili», contro «qualsiasi conversazione indicibilmente stupida», ben sapendo quale fosse l’immane prezzo con il quale avrebbe pagato la sua anacoretica intransigenza: «Al momento giusto dobbiamo alzarci e andarcene da queste compagnie, situazioni, condizioni per entrare, com’è naturale, in un lungo, lunghissimo periodo di solitudine che non avrà più fine[15].
Perché Roithamer è posseduto dall’idea sconvolgente di costruire il cono alla sorella, l’unico essere da lui amato e a lui affine? In fondo sta tutta qui il nocciolo duro dell’opera.
Perché mi sono avventurato nel proposito sconvolgente di costruire il cono, nell’impresa immane, immane sottolineato, della mia vita, così Roithamer. (…) Bisogna affrontare e realizzare e portare a termine l’immane, e ognuno nella sua vita si trova davanti a qualcosa di immane, oppure lasciarsi annientare dall’immane prima ancora di essersi addentrati in qualcosa di così immane. Così le persone a un certo punto della loro vita, e sempre nel momento decisivo della loro vita riferita al punto in questione, si chiedono se devono affrontare l’immane della loro vita o lasciarsi annientare dall’immane prima di affrontarlo. (…) Siamo sempre tentati di cedere perché crediamo di non potere più fare altro, perché non possiamo sapere che la nostra natura è assolutamente in grado di affrontare un immane simile, cosa che capiamo soltanto quando abbiamo realizzato e portato a termine quest’idea immane, così come io non sapevo se sarei stato in grado di realizzare il cono prima di aver terminato il cono[16].
Lo scopo della vita, la sua lucida follia starebbe tutta in questo confronto con l’immane che ogni essere umano è chiamato a intraprendere anche se la maggior parte di noi preferisce lasciarsi annientare prima di aver intrapreso il benché minimo tentativo di perlustrazione dell’ignoto. Certo, una volta portato a termine il titanico sforzo di autoconoscenza e purificazione spirituale, il rischio è di rimanerne comunque annichiliti perché raggiunta la perfezione non ci sono ulteriori orizzonti da esplorare, non più altre vette da scalare: «Ma una volta raggiunto il nostro fine non sappiamo più nulla sulla via per raggiungere il nostro fine e siamo sempre più incerti, e per tutta la vita non riusciamo più a capacitarci di aver raggiunto il nostro fine, di aver realizzato e portato a termine la nostra idea, ad esempio il cono, così Roithamer. Da ultimo, quando abbiamo raggiunto il nostro fine, qualunque sia il fine, anche se questo fine è una cosiddetta opera edilizia, ne proviamo spavento»[17].
In fondo, anche se non possiamo sperare di uscire vincitori da questa singolar tenzone con l’Immaneper via della nostra natura umana finita, peritura, caduca, transitoria, ne sarà valsa la pena aver tentato di afferrare la vita coraggiosamente e saldamente, averne assaporato baudelaireneamente tutto l’orrore e l’estasi. O, se vogliamo, con il poeta Clemente Rebora ci potremmo chiedere:
Che fai, se non adopri,
quando è la vita, l’immane tuo sogno?
Eppur qui si cimenta
il sublime destino:
qui, fremente bontà,
tu che l’eterno insegui
nel fuggevole giorno[18]
In Korrektur, la vita è simboleggiata dal sentiero della scuola che i tre amici percorrevano tutti i giorni tra mille insidie e pericoli attraverso boschi e rocce: «per noi il sentiero della scuola, come il sentiero della vita, è sempre stato un sentiero di dolore, ma nello stesso tempo anche sempre un sentiero di tutte le scoperte possibili e di una felicità sublime, tale che non si può descrivere»[19].
Diceva Cioran: «un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo». Correzione, libro nel quale ci viene suggerito che, in fondo, c’è una gerarchia umana a partire da come ognuno di noi sceglie di misurarsi con l’Immane, che gli uomini, dunque, si differenziano in base alle loro categorie del sublime, è pericolosissimo!
[1] T. Bernhard, Correzione, Torino, Einaudi, 1995, p. 252.
[2]Ivi, p. 240.
[3]Ivi, p. 254.
[4]Ivi, p. 240.
[5]Ivi, p. 19.
[6]Ivi, p. 256.
[7] V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, p. 104.
[8] Bernhard, op. cit., p. 104.
[9]Ivi, p. 105.
[10]Ivi, pp. 170-171.
[11]Ivi, p. 172.
[12]Ivi, p. 217.
[13]Ivi, p. 220.
[14]Ivi, p. 134.
[15]Ivi, p. 257.
[16]Ivi, p. 198.
[17]Ivi., pp. 197-198.
[18] C. Rebora, Le poesie 1913-1957, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1982, p. 8.
[19]ivi, p. 97.