Il mestiere del critico
ENERGIE CLAUSTROFOBICHE
“Pandora” di Hoffman e Till. Regia di Andrew Dawson- Palermo, Teatro Libero (48a stagione)
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Se vogliamo sapere cosa si muove sulle scene internazionali e cosa avvince la critica europea, l’apertura della quarantottesima stagione del Teatro Libero ci offre un’opportunità da non perdere con Pandora 88, idea e performance di Wolfgang Hoffman e Sven Till, diretto da Andrew Dawson. Ispirato al libro di Brian Keenan “Un Cradling Male” e al film di Stanley Kubrick “2001 Odissea nello Spazio”, lo spettacolo è un tipico esempio di physical theatre, in cui il corpo si trasforma in energia pura e, contemporaneamente, diviene lo strumento di trasmissione di una narrazione atipica, costituita da suggestioni emotive e da suggerimenti visivi.
Qui, la parola – le lingue sono l’inglese e il tedesco – è ridotta a dettaglio, esiste più per il suo significante che per il suo significato. Due uomini – scaturiti dal nulla e dall’oscurità – si ritrovano chiusi in una scatola: un non luogo che simboleggia una condizione dell’esistenza. I due sono costretti ad una coabitazione forzata, ad un incontro-scontro senza vincitori, dal quale possono scaturire situazioni di incanto infantile nella ripresa dei giochi dei bambini (il nascondino e il mimo) rivissuti con una certa dose di ironia, e di poetica complicità sottolineata dalle belle luci di Raiko Epperlein, uno dei punti di forza della performance.
Mani e braccia solcano la luce come se fosse un oceano dal quale riemergere, gli arti incatenano e liberano porzioni di corpo, le dita scrivono sulle pareti come se fossero vetri appannati o scolastiche lavagne, i movimenti rimbalzano sulle pareti come su muri di gomma e la scatola è letteralmente percorsa con il corpo in tutte le sue dimensioni. Ne scaturisce un groviglio di corpi condannati alla condivisione, per essi l’appropriazione della propria identità e la libertà (fisica, morale, politica?) diventano utopia.
Dopo la fase in cui deliberatamente i due protagonisti cercano di ignorarsi, pur consapevoli dell’impossibilità che questo possa accadere in uno spazio tanto angusto, l’uno comincia ad esistere per l’altro. Si riattraversa giocosamente il passato, ci si divincola con furia e violenza, ma la fusione in un’unica entità sembra inevitabile. La musica di Matthias Herrmann cresce progressivamente, passa dal suono alla melodia e traghetta lo spettatore dallo scherzo alla commozione per una condizione di costrizione claustrofobia dalla quale anche chi osserva vorrebbe fuggire.
A ben guardare la fuga è possibile, ma forse alla fine non più desiderata.
Il lavoro, in scena fino a sabato 24, ha suscitato interesse e apprezzamento nei numerosi festival mondiali che l’hanno ospitato, senza contare i premi di cui ha fatto incetta, dal Festival Fringe di Edimburgo al Grand Festival Prize Fadjr di Teheran, giusto per citarne alcuni.