Lo spettatore accorto
BARBARESCHI, ‘SELVAGGIAMENTE’ UMANO
“Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad”
di Rajiv Loseph regia di Luca Barbareschi
con Luca Barbareschi, Denis Fasolo, Andrea Bosa Bosca, Marouane Zotti, Hossein TAaheri, Sabrie Khamiss Nadia
Scena: Massimiliano Innocente. Costumi: Andrea Viotti. Luci: Iuraj Saleri. Musiche originali: Marco Urzolo. Regista assistente Nicoletta Robello Branciforti . In prima nazionale al Teatro Eliseo di Roma
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“Mi affido a uno spettacolo che parla dell’errore dell’Occidente nei riguardi degli arabi, di quell’entità che erroneamente confonde musulmani, arabi e terroristi” scrive Luca Barbareschi riguardo la tematica celata nel metaforico testo finalista del premio Pulitzer Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad di Rajiv Josepf, la cui visione è incentrata negli insoluti problemi etici del terzo millennio, attraverso una riflessione sulla reincarnazione, resa in questa regia di Luca Barbareschi, anche in qualità di prim’attore, “selvaggiamente” divertente.
L’autore, in questo senso, lavora su due binari: il primo su una scrittura di surrealtà favolistica-induista riguardo le tradizioni di animazione teatrale sui grandi Avatar di Vishnù che raccontano una miscela di reincarnazioni animali e umane. Il secondo binario si sovrappone alla leggenda, innestando in questa le differenti radici culturali tra paesi orientali e radici culturali di egemonia occidentale che continuano a persistere come conflitti storici. E queste riflessioni emergono nel testo come dialoghi serrati intrisi di grottesca crudeltà simile alla Pulp Fiction.
Il primo quadro visualizza sul proscenio un emozionante reportage in zona di guerra impaginato sul suggestivo prospetto architettonico tipico della reggia islamica di Saddam Hussein, in una Baghdad devastata dai bombardamenti. Due marines americani in abbigliamento di guerra sono messi a guardia di una tigre del Bengala, personificata da Luca Barbareschi con barba e folti capelli ( molto somigliante al faccione barbuto di Tagore, poeta, prosatore, drammaturgo e filosofo indiano di lingua bengalese), richiamo simbolico di una tigre personificata nella grande e divina Madre dell’incarnazione induista.
Nello Zoo ormai distrutto è rimasta solo lei, tutti gli altri animali Elefanti, Giraffe, Leoni, sono fuggiti e poi uccisi (come in un video – games ) da quei soldati che non esitano a sparare. Adesso quelle bestie sono tutte morte e noi spettatori in platea possiamo vederle effigiate come fossero vive sul fondo scena, nel simbolico giardino coranico delle delizie, al riparo da ogni timore. Tom, uno dei marines, riferisce al suo commilitone le proprie fantasie erotiche, su quello scenario di guerra particolarmente torrido, rivelandogli che quel palazzo lussuoso ormai in rovina – si vocifera – fosse adibito a stupri e omicidi.
Il Marines –si continua- ha portato via un water d’oro e lo ha sottoterrato sperando di venderlo a guerra terminata; e inoltre, dal corpo del figlio del dittatore Saddam Hussein, ha rubato una pistola anch’essa d’oro: in questo caso, simbolo evidentissimo di potenza virile e aggressività, nel corso dello spettacolo si rivelerà micidiale, perché coloro che ne entreranno in possesso si tramuteranno in personaggi killer, usciti fuori di testa, in quanto uccideranno senza volerlo, oppure con il piacere di farlo. La qualcosa accadrà durante lo svolgimento di uno spettacolo a suo modo inusitato, provocatorio ove tutti i personaggi diventeranno spettri. Non di meno, il passo che l’autore del testo compie, in accordo con questa compiuta regia, sembrerà ancora più radicale sul conflitto irrisolto tra lo stimolo vitale e il suo intrappolamento mortifero che di volta in volta attende i personaggi della scena.
La prima vittima di quell’arma è proprio la tigre in cattività, la quale con felina prontezza stacca di netto una mano al soldato mentre esso gli porge uno snack attraverso le sbarre della gabbia (come nel giorno della cattura il suo istinto gli detta di non fidarsi degli uomini). Ma, come fantasticava l’antica cultura “vedica” sulla reincarnazione, la tigre s’incarna, all’istante della morte, nel fantasma di un uomo saggio non turbato da questo cambiamento. Il suo nuovo spirito, questa volta morale, si anima dal pressante desiderio di sapere come il Creatore possa far finta di nulla e non intervenire in un luogo così corrotto con dei militari a cui è concesso anche di depredare.
Qui c’è di mezzo la seconda guerra del Golfo con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America, un teatro di Guerra che risale all’invasione dell’Iraq del 2003, con una Baghdad devastata dai bombardamenti a tappeto, con immensi profitti dell’industria bellica americana. L’esito è stato la vittoria statunitense con l’ abbattimento del regime di Saddam Hussein. Tuttavia il conflitto si è tramutato in una guerra di liberazione dalle truppe straniere, considerate invasori da alcuni gruppi armati, in una guerra civile fra varie fazioni, tuttora in corso.
Luca Barbareschi, regista e protagonista, ‘personifica’, rende tangibile e sornione il fantasma della tigre. L’attore, con il fisico possente della tigre, il viso ricoperto di folti capelli e barba striati, si aggira felpato sul palcoscenico, a volte ruggendo oppure miagolando ironicamente, si rivolge al Creatore con la voglia di capire l’ ‘umanità dell’uomo’: perché la sua vita e piena di buche, fenditure, squarci? Per analogia semantica simili alla scenografia informale di Massimiliano Nocente. Mentre cerca di immedesimarsi umanamente sull’intelligenza umana, spesso deraglia su irresponsabilità o peggio nell’istupidimento giulivo. Lui come un saggio tigrone reviviscente disquisisce su gli atti umani. Filosofeggia deliziando la platea, riflettendo se gli umani sono buoni o cattivi. Oppure se la loro moralità o amoralità dipende dall’oggetto scelto, dal fine che ci si prefigge o dall’intenzione.
Uno spettacolo molto interessante e ben costruito che nasce dalla volontà di Barbareschi di voler fare produzioni di altissimo livello, coinvolgendo artisti di varie generazioni ed etnie. Ci sono nel cast figure di soldati made in USA, e gente irachena. Oltre a Barbareschi sono in scena Denis Fasolo, Andrea Bosca, Marouane Zotti, Housein Thaeri, Nadia Kibout, Sabrie Khamiss. “La prospettiva di un confronto della città, del suo nuovo Eliseo e Piccolo Eliseo è la nuova sfida che ci attende e che vogliamo affrontare”- propone Barbareschi. La riapertura del teatro di via Nazionale è un indicativo passo in questa direzione, una realtà riconosciuta e riconoscibile: un luogo d’incontro e scambio di discussione e confronto tra i nuovi autori, gli artisti e il loro pubblico.