Il mestiere del critico
L’INTRICO DELL’AMORE MATERNO
“L’attesa” film d’esordio di Piero Messina
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Juliette Binoche è, insieme, una diva di smagliante bellezza e un’interprete di sapiente duttilità. Superata di slancio la rischiosa soglia dei sessant’anni realizzando prove ardue per conto dei maggiori registi di ogni dove – da Godard a Kieslowski, da Minghella ad Hallström – si è sorprendentemente messa a disposizione dell’esordiente siciliano Piero Messina per il suo film d’esordio L’attesa (di recente in lizza a Venezia e, di seguito, in programma a Toronto).
Juliette Binoche, dunque, non ha problemi ad affrontare cimenti un po’ inusuali, tanto che ha dichiarato in tutta semplicità: “Sono 22 anni, da Blu di Kieslowski, che evito ruoli di madri che soffrono la perdita di un figlio, esitavo, ma ho letto la sceneggiatura, è un personaggio fuori dell’ordinario. Poi ho visto Piero mangiare. Mi ha incantato il suo bisogno di cibo, aveva la stessa urgenza di fare questo film”. L’attesa è nato così dall’impellenza di un cineasta al suo primo lungometraggio a soggetto (dopo un debito apprendistato al fianco di Sorrentino) e da un’attrice ben consapevole della propria alta professionalità.
Desunto con grandi licenze dal pirandelliano La vita che ti diedi e mutuato da una sceneggiatura a otto mani, L’attesa si proporziona sullo schermo come un’opera di stilizzatissimo mestiere ove la traccia narrativa, flebile e intercalata da frequenti flashback, si dipana con le cadenze, il ritmo di sentimenti primari quali un evento luttuoso, un amore giovane e le rifrangenze di molteplici destini incrociati. Così con una progressione calibrata prendono corpo via via le figure della dolente Anna (Juliette Binoche), appena orbata del figlio Giuseppe, dell’adolescente Jeanne (Lou de Laage), trepida innamorata dello scomparso Giuseppe e di un ristretto gruppo di comprimari intenti a vivere o a fingere di vivere il luttuoso evento come una vicenda tutta ordinaria. In particolare, è la presenza attonita e reticente della incostante Anna che determina – sostenendo che la persona morta è suo fratello – un gioco delle parti per forza ambiguo, fuorviante.
La giovane Jeanne, giunta del tutto sprovveduta dalla Francia, cerca vanamente di sciogliere il mistero della prolungata assenza di Giuseppe; Anna, dal canto suo, finge strani maneggi per giustificare l’ingiustificabile: ora forza il suo contegno in un comportamento elusivo, ora tentando una via d’uscita anche disincantata, quasi allegra per protrarre all’estremo il disvelamento della triste verità. Cosa cui si giunge, dopo molteplici camuffamenti, quando già la sconcertata Jeanne ha intuito l’autentico stato delle cose. L’approdo ultimo della malinconica storia è dato, in tal modo, da un addio inconcludente, sconfinando nel vuoto dell’amore naufragato nel lutto cui nessuno dei personaggi ha saputo far fronte razionalmente.
L’attesa, già in concorso a Venezia 2015 senza riconoscimenti di sorta, risulta, proprio come film d’esordio, un’opera per tanti versi preziosa, ma anche con smagliature evidenti per troppo ardore creativo. Infatti se punti di forza ineccepibili appaiono qui l’elemento figurativo, oltre che il décor ambientale tutto giostrato in una agreste dimora del passato, la registrazione abusata di ostentati primi piani, l’enfasi costante del racconto sfumano inerti tra eventi inessenziali (la processione di incappucciati; la serata del ballo, ecc.). Un film, dunque, L’attesa, di elegante fattura ma di spessore labile. Fatta eccezione, beninteso, per la sempre superlativa Juliette Binoche, non a caso definita dalla miglior critica “duttile, intellettuale, dalla bellezza non appariscente ma densa di energia interiore”.