La guerra come rimedio contro la monotonia della vita sociale. Una prosa giovanile di Vitaliano Brancati
Sul quotidiano romano “Tevere” dell’8 agosto 1930 venne presentata la prosa di Vitaliano Brancati intitolata La guerra, un insieme di considerazioni sul primo conflitto mondiale e più in generale sul valore e sul significato della guerra che, nelle intenzioni del giovane autore, doveva essere riportata in appendice al suo primo romanzo di prossima pubblicazione L’amico del vincitore.
L’inizio della prosa descrive con spietato realismo gli strazi della guerra inducendo il lettore a pregustare, dopo tale esordio, un caldo e appassionato inno alla pace e alla fratellanza. Invece, con un vero e proprio colpo di scena, il giovane Brancati prosegue in direzione del tutto opposta.
La guerra è necessaria, secondo l’autore, perché amplifica al massimo le sensazioni. E per essere più incisivo prospetta minuziosamente agli occhi del lettore la differente qualità della giornata del borghese e quella del soldato: entrambi seguono una trafila quasi uguale di trepidazioni e di soddisfazioni, solo che nella giornata del soldato non c’è spazio per la noia e il torpore e le stesse sensazioni subiscono una fortissima dilatazione. Certo, il soldato affronta la morte, ma essa è un ignoto che potrebbe essere tanto brutto quanto bello. Anche il fatto che durante la guerra si vivano sensazioni spaventose al limite della sopportazione non è negativo per lo spirito umano che ha bisogno di “spezzare tutto il ghiaccio di abitudini pigre, di materialità sorda, di sonnolenza che la vita sociale ha accumulato”.
Con la questione delle “presunte” responsabilità, Brancati si riallaccia ad uno dei punti nevralgici del dibattito del dopoguerra, dibattito che a distanza di anni forniva sostanzialmente due immagini del conflitto: una ufficiale, epica e gratificante, l’altra critica e insistente sugli altissimi costi umani dell’impresa.
L’autore sostiene che per un evento tanto grandioso sia impossibile e fuorviante cercare singole responsabilità, perché tutti indistintamente vollero la guerra, anche coloro che avevano paura. Alla fine a restare intatto nei secoli non sarà il ricordo delle morti atroci ma l’esito della guerra come “forma eterna e assoluzione”.
Prevenendo una possibile obiezione, l’autore si chiede come possa accordarsi la fede in Dio, che aveva appena affermato di possedere, con l’idea della guerra. Il giovane Brancati liquida la questione con una pretestuosa scappatoia di personalissimo conio: Dio non vuole la guerra, ma riguardo queste piccole cose lascia agli uomini la più assoluta libertà; per Lui è importante solo essere ricordato anche nella forma capovolta della bestemmia. E ancora l’autore sostiene che nell’uomo coesistono due aspetti: uno mondano che spinge a pensare e ad agire e uno eterno e immutabile che si bea della contemplazione del Creatore. Pertanto tutti gli affanni della vita sono solo uno scherzo se posti a raffronto con questa parte eterna e felice dello spirito umano.
Il giovane Brancati si trovava allora in una fase particolare della propria vita in cui sentiva fortemente la necessità di credere in qualcosa e di lasciare naufragare nella fede i suoi dubbi. Fede in Dio naturalmente, alimentata da quella parte della sua anima fiduciosa nell’entità metafisica, ma anche fede nell’Uomo (Mussolini in questo caso) che con la sua forza e volontà potesse supplire alle manchevolezze individuali. E’ infatti condotta su un registro mussoliniano (nel ’30 non era ancora esplosa la coscienza antifascista del Brancati maturo) la sua esaltazione della guerra “parola mostruosa e fascinatrice” e su un registro vagamente dannunziano (quel D’Annunzio poi tanto deplorato!) per quell’amplificarsi a dismisura delle sensazioni. La guerra assurge nel suo scritto ad entità metastorica mediante la quale esaltare la parte mondana dell’uomo fino ad assumere anche una dimensione ludica.
Brancati non pensava, come i nazionalisti, che bisognasse combattere per l’Italia esasperando il patriottismo in parossistico bisogno di espansione territoriale e volontà di potenza, non vi cercava una soluzione a livello esistenziale, come Serra e Borgese, né l’esplosione terribile e magnifica di uno spettacolo orgiastico di istinti e modernità come Marinetti, né il bagno caldo di sangue e l’operazione malthusiana che Papini sbandierava con cinismo, né ancora il male necessario, “la guerra che uccida la guerra” di Salvemini. Per Brancati combattere significava spezzare la monotonia di quella vita sociale “tragica, pericolosa e insopportabile”, significava sentire dentro sé “il fremito dell’umanità giovane e barbarica”. E’ un gioco, appunto, con il quale esaltare al massimo grado le sensazioni e dal quale è possibile distaccarsi rifugiandosi nella parte eterna e felice dello spirito. Punto di vista quasi adolescenziale ma necessario per staccarsi con una presunta originalità dal “già detto”.
La prosa non fu inserita, come era stato preannunciato, alla fine del romanzo, edito poi nel ’32. Probabilmente era bastato quel breve lasso di tempo perché Brancati avvertisse l’ambiguità della collocazione di quella prosa alla fine del suo romanzo L’amico del vincitore: una vicenda amara che ha come protagonista il bambino prodigio e poi studente modello Pietro Dellini, un perdente roso dal dubbio della propria mediocrità, uno dei tanti “inetti” della nutrita galleria novecentesca, sconfitto per il fatto stesso di essere stato “amico del vincitore”, nel quale è adombrata la figura di Mussolini, l’uomo che animerà la dittatura sulla quale il Brancati maturo riverserà la sua più sferzante ironia.
Dovevano passare ancora molti anni prima che la scrittura di questo grandissimo autore, molto noto ai contemporanei ma purtroppo oggi poco letto e ricordato, giungesse alle magnifiche vette espressive dei capolavori.
Il suo romanzo giovanile resta un semplice esercizio di scrittura, lo specchio riflettente stati d’animo e aspirazioni di un giovane stregato, come tanti, dalla seduttiva immagine fascista di potenza fisica e verbale. Nonostante questo, le simpatie del lettore vanno indiscutibilmente al “perdente”, al ragazzo dal fine intelletto che si contrappone all’antagonista compiaciuto della propria forza e del proprio coraggio incosciente. Già nel titolo, in fondo, lui stesso si era schierato e Pietro Dellini si porgeva come il proprio riconoscibilissimo alter ego.
Quella dimensione ludica della guerra, tanto esaltata nella prosa esaminata, in fondo non gli calzava a pennello e, nonostante l’assidua frequentazione della sala di scherma (disciplina di moda, certamente, ma anche propedeutica per eventuali duelli), la sua aggressività doveva restare confinata alla forma, non certo alla sostanza.