Ri-scatti familiari. ‘Antropolaroid’ di Tindaro Granata
ROMA – L’attore/autore messinese scrive il primo testo, Antropolaroid, per portare ‘fuori’ il suo mondo interiore, le sue radici sicule, i racconti ‘orali’ tramandati dai suoi avi, confrontandosi con la tradizione del Cunto siciliano, ma distaccandosi dalle tecniche stilizzate – tipiche del maestro Mimmo Cuticchio o di altri cuntisti come Vincenzo Pirrotta, Mario Incudine e Davide Enia.
Il debutto nazionale di Antropolaroid risale all’8 luglio 2011, nell’ambito del Festival Opera Galleggiante di Scandolara Ravara (CR) e segna per Tindaro Granata la svolta di una carriera che sarà sempre in ascesa: con il consenso di pubblico e critica, vince il Premio ANCT 2011 dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro come ‘Miglior spettacolo d’innovazione’ e nel 2012 il Premio Fersen in qualità di ‘Attore creativo’.
Luce! Una sedia, un lenzuolo bianco.
«Quando le persone s’impiccano, si sente questo rumore: Sfsfsfsfs… Questo rumore, lo fa quel poco d’aria che c’è nel corpo, perché da lì non vuole uscire… perché lo sa che se esce da quel corpo non ci può tornare… mai più.»
È questo l’incipit dello spettacolo: un’immagine di morte, l’ultimo respiro che si libera dal corpo spento, per divenire il soffio vitale che fa ri-vivere, attraverso ‘istantanee’ metamorfosi di Tindaro, i quadri di ritratti dei suoi familiari.
Ecco il bisnonno, Francesco Granata, dal medico perché ha un cancro allo stomaco: non potendosi curare decide di impiccarsi.
Come un trasformista, Tindaro cambia registro con fluidità e rivoltandosi la maglietta sul capo è la spiritosa bisnonna Concetta Gatani: lasciata sola, giovane e incinta, sputa sulla bara del marito e decide di partorirle accanto.
Nasce il nonno di cui porta lo stesso nome e che all’età di cinque anni ammazza, con un colpo di scupetta, uno zudcraju – animale mitologico con il corpo di un uomo, la testa di un serpente e la coda di una lucertola – che, secondo le credenze, mangia i bambini monelli.
Poi è sua nonna Maria Rosa Casella, che parla in italiano e per questo la gente la considera una “puttana” e suo nonno la picchia quando torna a casa ubriaco. Sulle note del Magnificat di Mina, Tindaro balla avvolto in un lenzuolo, tracciando nello spazio immagini rituali e misteriose, contrappuntate da suoni striduli e lancinanti: è il segreto della “Notte Nera”, l’iniziazione mafiosa del nonno [Don Badalamenti è una licenza poetica: il noto personaggio non era del messinese, ndr].
Con un meccanismo di flashback (non molto chiaro a chi scrive) ci si ritrova a “ballare” nella casa della nonna Maria Rosa quand’era ragazza.
«Forza Mariuzza… ca si tu balli bonu, trovi u maritu bonu, si tu balli stortu, trovi u maritu stortu».
È il tormentone, sulle note ritmate del valzer Clementina dell’esilarante zia Peppina, zitella, perché da piccola è caduta da un albero ed è rimasta “offesa” (con la gamba storta), ma nonostante questo balla tutto il giorno e insegna il valzer a Maria Rosa. Con loro c’è anche lo zio Jaspiru, il fratello di zia Peppina, che si mangia le parole ed è rimasto minuto perché una notte un “angelo nero” gli ha rubato il pensiero mentre dormiva. Difatti, è stato colpito dalla meningite.
Tindaro/narratore ci presenta il suo bisnonno materno Antonino Casella, simbolo dell’arroganza patriarcale, che impone a sua nonna Maria Rosa di sposare un ufficiale “germanisi” (così chiama i tedeschi) e appena lei compie diciotto anni, vestita di seta e taffetà rosa, la porta in un posto magico… una festa da ballo, al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, dove un angioletto degli affreschi quella sera ci mette lo zampino. In una situazione metateatrale, sulle note di Libiamo ne’ lieti calici (scelta in un’edizione dove Alfredo scoppia a ridere alla vista buffa di Violetta), con una divertente pantomima, Tindaro/angioletto fa cadere la “cantantessa” e alla vista di un bel giovane pescatore (suo nonno omonimo) tende l’arco e accende l’amore della nonna Maria Rosa… e bonanotte all’ufficiale germanisi!
La loro storia d’amore non ha il favore dell’arrogante bisnonno Antonino, che obbliga a Maria Rosa di sposarsi con l’ufficiale tedesco o di andare in convento.
Ed ecco che qui Tindaro supera sé stesso, regalandoci uno dei ritratti più riusciti dello spettacolo e cioè Filomena, la Gna Mena, seconda moglie del suo bisnonno, ex prostituta, che ha allattato Maria Rosa, rimasta orfana della madre. Grazie alla sua sensibilità di ‘donna di mondo’, alla fine si risolve il caso disperato: consiglia ai giovani amanti la ‘fuitina’.
Da quell’amore impossibile nasce il padre Teodoro Granata, che emigra in Svizzera per fare il falegname; al ritorno in Sicilia, cade nella trappola del voto di scambio per avere la licenza di aprire una falegnameria. Non si accenna della madre.
Finalmente… arriva lui, l’ultimo erede, Tindaro Granata con i capelli ‘niuri’, gli occhi ‘niuri’ e la bocca tutta rossa a forma di cuore. È in braccio alla sua bisnonna Concetta, vista all’inizio al cimitero che sputava al marito e ormai vecchia: «Quannu diventerai granni e ti troverai in difficoltà… cerca a stidda chiù lucenti… chidda est la stidda di la to bisnonna, ca ti protiggisci… ma ricordati ca nun c’est fortuna, nun c’est bellezza, si nun si passa dalla sufferenza.»
Con i consigli della bisnonna Tindaro cresce e diventa il ragazzo di vent’anni che rivendica il suo desiderio di diventare migliore.
È sulla Nave Spica, Meccanico Artigliere 78P02155. Qui incontra il suo amico d’infanzia Tino Badalamenti al quale rivela il suo sogno di lasciare la Sicilia per andare a Roma a fare l’attore di cinema: «Ricordati, Tino, la Sicilia è bella… ma la libertà è chiù bella assai!».
Sono le ultime parole che chiudono il cerchio per ritornare all’inizio, con un’altra morte…
Una lampadina accesa, attaccata a un filo che scorre via come un cappio: Tino, il suo compagno dei giochi, sconvolto di scoprire di essere nipote di un mafioso, s’impicca.
Come l’ultimo respiro che esce, per non tornare mai più, da quel corpo morto, Tindaro lascia per sempre la sua terra natia per ‘vivere’ il suo grande sogno.
Tindaro Granata nel suo assolo restituisce con autenticità i molteplici personaggi e le varie situazioni della fabula familiare. Camaleontico e versatile riesce con maestria a essere ‘altro’ da sé: uomo, donna, bambino, adulto, vecchio, innamorato, rabbioso, mafioso, timoroso, zoppo, balbuziente, sensuale ecc. Tutto è ‘giocato’ con adesione e lieve ironia, ma senza mai staccare la spina e deconcentrare lo spettatore, che rimane incantato e si lascia andare al gioco puro del teatro. Poco importa che la scena sia nuda: a Tindaro basta una maglietta rivoltata sul capo per divenire materia performativa. Poco importa se ci si perde a volte nell’intreccio degli omonimi o nei passaggi di balzi di età o situazioni: le emozioni ‘forti’ prendono il sopravvento perché di continuo si ride di cuore, ci si commuove, si sogna, ci s’intenerisce, si rimane di stucco. Poco importa sapere se siano un’invenzione o verità i fatti poco rassicuranti attinenti al mondo mafioso. Ci s’incanta anche per l’uso sapiente di tutti i registri vocali della lingua siciliana, che a volte, nei suoi arcaismi, sembra latino o aramaico.
La forza di questo ‘gioiellino’ performativo è che tutto è sostenuto dall’essenza del teatro e cioè dall’anima.
ANTROPOLAROID
di e con Tindaro Granata
scene e costumi Margherita Baldoni, Guido Buganza
rielaborazioni musicali Daniele D’Angelo
suoni e luci Matteo Crespi
produzione Proxima Res
Off-Off Theatre, Roma, 7-12 maggio 2019