Giornale di bordo della stagione cinematografica 2018-19
Streghe e Regine, ecoterroriste e falsarie, scrittrici e senza tetto, amanti e libraie, il fish-eye femminile puntato sui formalismi deteriori della società
di Lucia Tempestini & Sergio Cervini
con Simona Almerini, Giuseppe Condorelli, Raffaella De Biasi, Anna Di Mauro, Agata Motta, Angelo Pizzuto, Lisa Tropea
La stagione cinematografica appena conclusa si sovrappone in modo quasi millimetrico alla precedente, accentuandone tendenze e cifre stilistiche. Si conferma dominante la figura femminile, nelle sue infinite declinazioni. Dalle streghe di Guadagnino alle ‘favorite’ determinate e infelici di Lanthimos, costrette a elaborare continue strategie per affermarsi o semplicemente sopravvivere in un mondo fatto dagli uomini per altri uomini, dalla scrittrice/falsaria riottosa e troppo sola della Heller alla libraia tenace della Coixet, dalla giudice minorile in crisi di Eyre alla Colette ribelle di Westmoreland, dall’ecologista ‘elettrica’ di Erlingsson alla escort convertita all’umanesimo di Arcand, dalle amanti reiette di Lelio alle senza tetto di Petit, tutte le protagoniste dei film passati in sala portano alla luce la crisis che formalismi, luoghi comuni, protocolli, pregiudizi, teorie opportunistiche e discriminatorie, aprono di secolo in secolo nell’esistenza delle donne, mutando forma con il variare dei contesti e dell’organizzazione sociale e producendo squilibri a volte irreparabili o fenomeni reattivi.
Cominciamo da Yorgos Lanthimos e dal suo splendido The Favourite. A volte è divertente essere la Regina, dice a un certo punto Queen Anna, salita sul trono d’Inghilterra nel 1702 senza la preparazione e il carattere che sarebbero stati necessari per prendere autonomamente decisioni politiche delicate nel bel mezzo di una guerra con la Francia dei cui sviluppi lamenta di non essere tenuta al corrente. Immaginiamo di sì, divertente, a volte, per esempio quando dà libero sfogo ai capricci da bambina tiranna. Bizzarrie e ingordigia (di cibi, di brandy, di corpi femminili) che concedono un temporaneo sollievo a questa donna malata, sfatta, con una gamba piagata e necrotizzata dalla gotta, torturata da dolori insopportabili, costretta a muoversi con le stampelle o sulla sedia a rotelle. Olivia Colman rende palese la sua larvale coscienza che il tempo migliore della vita è ormai alle spalle, facendone in parte una struggente, grottesca antesignana di Krapp. Oppure non c’è mai stato veramente un ‘tempo migliore’, ma soltanto il desiderio di esso, quando sembrava fiorire la possibilità di qualcos’altro dentro la confidenza giovanile con l’amica di sempre Sarah Churchill. Il presente, i giorni, lo scorrere sinistro del tempo, accompagnato da compassate percussioni che mettono a disagio lo spettatore e sembrano chiamare il dio pagano della carneficina (quello che conduce a morte Sebastian nella cittadina galiziana di Cabeza de Lobo, in Suddenly, Last Summer di Tennessee Williams), rigurgitano sofferenza, privazione, solitudine, derelizione, coagulati in un sentimento che potremmo definire ‘nostalgia del possibile’ e che Lanthimos rappresenta attraverso i conigli di cui la sovrana si circonda, uno per ogni figlio perso prematuramente, alcuni abortiti, altri morti poco dopo la nascita.
Non c’è più traccia di tenerezza nella relazione con Lady Sarah, duchessa di Marlborough. Sarah, diventata la Favorita della regina, amministra l’Inghilterra con decisione, idee chiare e spesso crudeli (spinge Anna a raddoppiare le tasse per finanziare la guerra e parla con disprezzo del popolo, destinato solo a obbedire), favorendo il partito Whig. Cerca di contenere umori e malumori di Anna con un atteggiamento severo e brusco, dispensandole nel segreto delle camere il suo charme da bel cavaliere risoluto. Gli abiti maschili che indossa ne accrescono il fascino androgino e spingono Mrs. Morley (nome spiritoso che viene usato dalle due donne nelle conversazioni private, quello di Sarah è Mrs. Freeman) a chiederle con un certa veemenza e senza perifrasi di essere scopata.
La dimora in stile giacobiano utilizzata da Lanthimos è Hatfield House, costruita nel 1611 da Robert Cecil, primo Conte di Salisbury, e i suoi interni (che invece appartengono al palazzo reale di Hampton Court), corridoi salotti camere biblioteche sale da pranzo, pullulano di cortigiani-fuchi inetti, affettati, fatui, inguaribilmente narcisi, sormontati da piumose parrucche e truccati come etère, che, fra una corsa di anatre e l’altra, aspirano a manipolare politicamente Queen Anna, ma per ottenere colloqui e ascolto sono costretti, non sempre con successo, ad aggirare la sorveglianza della duchessa di Marlborough. Su questo microcosmo fuori dalla realtà, eppure in grado di incidere pesantemente sul corso della Storia, infuria lo sguardo di Lanthimos, deformando prospettive, volti e ambienti con l’uso pressoché ininterrotto del fish-eye.
Il Perturbatore, figura ricorrente ed essenziale nel cinema del giovane maestro greco, che arriva a scompaginare le carte è in questo caso Lady Abigail Hill, cugina di Sarah, caduta in disgrazia dopo essere stata persa al gioco dal padre. La ragazza viene scaraventata fuori dalla carrozza sgangherata sulla quale stava viaggiando (non esattamente in compagnia di persone distinte) finendo in una pozza di fango e sterco, proprio davanti al palazzo di Anna. Accompagnata dal lezzo che la fa deridere dai cortigiani e da un piccolo sciame di moschine eccitate, chiede a Sarah un lavoro da cui poter ripartire per tornare la dama di un tempo, dopo umiliazioni, stupri e miseria. Per nulla impietosita, la duchessa relega Abigail nella cucina grigia e vasta, di epoca Tudor, dove cuoche e cameriere malevole le riservano i lavori più umili, arrivando a farle ustionare una mano con la soda caustica. Così, per passare il tempo, per ridere. Gli umani possono essere creature particolarmente abiette. Aristocratici o servi, Lanthimos non salva nessuno.
Abigail viene direttamente dall’inferno e non si lascia scoraggiare. Incarna lo stato di natura, quindi è mossa dall’istinto di sopravvivenza degli animali. E’ determinata, intelligente, intuitiva e osserva molto. Vede le orme, fiuta l’aria, lega gli indizi, sa tessere e all’occorrenza cambiare le sue lente e complesse strategie. Emma Stone è assolutamente straordinaria nel leggere in filigrana il lavorìo mentale instancabile, tenacissimo, di questa ragazza, e fra le tre protagoniste si rivela la migliore.
Lady Abigail riesce a far migliorare la gotta di Anna applicandole sulla gamba una pasta d’erbe raccolte nel bosco. Si guadagna la riconoscenza e l’attenzione della regina e qualche sarcastica lezione di tiro al piccione da parte della cugina. All’inizio è intimorita e goffa, ma ben presto nell’azzurro dell’iride che sta puntando il volatile si accende una luce cattiva. Farò di te un’assassina, sorride Sarah, senza sapere quanto l’auspicio le sarà infausto.
La nuova arrivata è abile nel blandire la regina, nell’intrattenerla con spirito e dolcezza mentre spinge la sedia a rotelle lungo gli interminabili corridoi finestrati, curvati dal grandangolo. La convince a ballare, lusingandola con frasi che riaccendono in Anna l’illusione di poter essere amata (siete bellissima, se fossi un uomo abuserei di voi), e infine conduce al piacere la povera carne martoriata di Mrs. Morley. Avviene nell’istante in cui Sarah sta per entrare in camera, arrivando dal corridoio di comunicazione segreto fra il suo appartamento e quello della regina. Indietreggia in silenzio, rientrando nella tenebra che la avvolge. La candela illumina il pallore del viso, la duchessa vacilla dentro e questa vertigine, questo spaventoso franare di un mondo pazientemente costruito, e la percezione di un sentimento autentico che le sta scivolando via dalle mani, sono visibili negli occhi di Rachel Weisz e rappresentano una delle anse più dolorose di The Favourite. Il buio è denso, pesante, perché nel film viene utilizzata solo la luce naturale, e chiude il cuore di Sarah in un sudario di velluto. Luce e assenza di luce diventano personaggi, si caricano di senso, parlano, agiscono, perdono sangue e altri fluidi, e questo pone The Favourite qualche passo avanti rispetto all’estetismo di Barry Lyndon.
Da questo momento inizia una guerra mortale fra le due favorite, con tentativi di avvelenamento, rovinose cadute da cavallo, partenze per le terme, complotti politici, alterne fortune, danni provocati dall’eccesso d’orgoglio, ricatti, ripensamenti, lettere d’amore bruciate, fino all’affermazione di Abigail, abile anche nello sfruttare il malcontento del partito Tory guidato dal Conte (e latifondista) Robert Harley. La caparbietà di Lady Hill (io sono dalla mia parte, sempre) otterrà persino l’esilio dell’avversaria.
Il movimento della parte finale, giocato su toni sempre più foschi e carnevaleschi, su un degrado generale senza freni, a tratti ripugnante, che può far venire in mente The cook, the thief, his wife and her lover di Peter Greeneway, ci porta a scivolare su un piano inclinato di partecipe assenza di speranza. Qui Lanthimos non è più il filosofo, il biblista, l’entomologo distaccato, sceglie anzi la prossimità, ossia di immergersi nello stesso lago di melma infernale che ingoia i suoi personaggi. Entra nella drammatica prigionia di ruolo in cui si rinchiudono le due donne, Anna ed Abigail, dipendenti l’una dall’altra (aspramente dipendenti, e piene di risentimento) e dalla finzione che inscenano all’infinito, l’una per e contro l’altra, e che nel perpetuarsi della ritualità quotidiana le divora. [1]
Turbamenti e crudeltà dilagano anche nell’imperfetto ma affascinante Suspiria di Luca Guadagnino. Nella Berlino degli anni ’70, ancora divisa dal muro, radio e televisioni trasmettono ininterrottamente le notizie inquiete di quegli anni: i dirottamenti aerei dei terroristi palestinesi, i sequestri, gli omicidi e gli attentati della banda Baader-Meinhof. Un rumore di fondo che affiora a tratti nel film, insieme agli echi delle bombe, all’ottusità dei poliziotti, a un reale che fin dall’inizio viene sopraffatto dalla dimensione mitologica e atemporale della narrazione. Più pertinente appare la connessione alle crudeltà naziste, le cui tracce presenti nella memoria rappresentano un dolore (o eterno rimpianto, o sconsolato senso di colpa che punge il cuore come una spina) soltanto rimosso ma mai dimenticato, mai veramente elaborato, dove vivono le radici inestirpabili di questa versione ipnotica di Suspiria, capace di suscitare un’alterazione emotiva profonda, almeno nella prima parte.
Patricia Hingle, allieva della prestigiosa Markos Tanz Company, attraversa le strade illividite dalla pioggia senza fine, passa accanto, senza neppure vederli, a edifici fatiscenti, dai colori opachi, verde marcio, azzurro sporco, grigio, per raggiungere lo studio del suo analista, l’anziano dr. Klemperer. Entra stillando acqua piovana e angoscia, in preda all’ansia psicomotoria non trova un angolo che le dia qualche istante di pace. Vaneggia, raccontando a Klemperer il terrore che le incutono le direttrici della Compagnia di danza, ed evocando tre figure femminili ancestrali: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum, la cui esistenza precede quella di dio, di qualsiasi dio, e dei demoni, precede addirittura la creazione e ha origine nella materia ignota dell’universo. L’analista classifica inizialmente le parole della ragazza come delirio, tuttavia il delirio può essere una verità talmente insostenibile da incespicare in se stessa, diventando espressione frantumata di ciò cui non si sa dare un nome.
Patricia scompare poco prima dell’arrivo alla Scuola di Susie Bannion, originaria dell’Ohio e cresciuta in una comunità Amish le cui regole morali fanno apparire progressiste quelle de La lettera scarlatta, inducendo la ragazza alla fuga verso l’ammirata Madame Blanc, coreografa e anima della Compagnia. La sparizione di Patricia viene attribuita a una sua adesione al terrorismo, ipotesi che non convince affatto Klemperer, deciso a cercare la verità sulla ragazza e sui troppi misteri della Markos Company.
E’ intorno al complesso rapporto fra Susie e Madame Blanc che si sviluppa Suspiria. Legate dalla simbologia delle mani, che trasmettono il potere e disegnano poesia nell’aria, che curano e uccidono, che creano incubi e inducono al sonno, diventano il riflesso l’una dell’altra, al di là del tempo, ben oltre il legame maestra/allieva. E se Dakota Johnson dimostra una crescente maturità espressiva, rendendo incandescenti i vuoti e i silenzi, Tilda Swinton tocca un vertice artistico difficilmente superabile. Non si muove nello spazio, crea letteralmente lo spazio per mezzo di linee essenziali tracciate dal corpo e dalle mani. Fa percepire il peso degli oggetti invisibili, enuclea la Bestia oscura che vive in ciascuno, sollecita le danzatrici a inseguire il volo, per mezzo dei salti, a superare l’attrazione che il suolo esercita sulla freccia appena scoccata, a inseguire la terribilità dell’Ideale, che non è più la Bellezza, visto che la danza oggi non può essere né bellissima né allegra, ma deve invece rompere gli schemi, mostrare la ritualità e la violenza delle origini trasfigurate in geometrie del corpo e degli istinti. I suoi occhi, in particolare, non sono dimenticabili: febbrili, tormentati, cercano con una disperazione controllata la possibile purezza del potere, in contrapposizione alla ‘fazione Markos’, guidata dall’antica Strega mangiata, corrotta, dalla senescenza, accecata di tenebra, e dalla sodale Miss Tanner, un’intensa Angela Winkler dallo sguardo di onice nero.
Entro il legame fra Direttrice e Allieva si esalta e si scatena la genialità estetica di Guadagnino. L’ingresso di Susie nella Scuola è un gioco mozzafiato di prospettive alterate e angolazioni diverse; le scalinate maestose, l’atrio, le colonne inseriscono Susie in una cornice Jugendstil che fa affiorare suggestioni mitteleuropee raggelate, mostrandola in campo lungo, in primo piano e, quando la scena viene osservata dall’alto da Madame Blanc, in soggettiva.
Ugualmente prodigiose le sequenze che si svolgono nella sala prove; le figure che vivono e si muovono dentro gli specchi, il riflesso come unica forma di esistenza, la fuoriuscita dell’inconscio trasfigurato in rappresentazione sono elementi che rendono Suspiria un’opera imperdibile.
Un vero peccato che le riflessioni e i tempi dilatati caratteristici di Guadagnino, insieme all’originalità figurativa e di contenuti, si trasformino nella seconda parte in un pastiche grottesco e sardonico, in cui le tracce narrative si confondono facendosi pressoché indecifrabili. Purtroppo, nell’ultima mezz’ora il film tradisce la propria cifra stilistica adottando soluzioni tipiche del genere ‘gore’ e abbandonandosi a eccessi d’ogni tipo. Nulla ci viene risparmiato, dalle mascherate stile Pirati dei Caraibi alle porcellane, agli specchi baroccheggianti e ai ‘cuori sacri’ da processione di una qualche Santa Patrona, dal sabba che precipita nella comicità involontaria all’immagine di Susie in tunica nera con vistoso décolleté che cita proprio gli stereotipi femminili antitetici rispetto al progetto, il tunnel degli espedienti sbagliati sembra non avere fine.
Magari, la prossima volta, sarà opportuno tenere conto della lezione di Lovecraft e altri maestri: per ottenere un effetto davvero perturbante l’Orrore più che mostrato va suggerito. [2]
Di variazioni sul tema della ‘strega’ moderna, spesso intesa come figura in controtendenza, in qualche modo eversiva rispetto alla forma mentale comune, agli stereotipi del momento, ne abbiamo viste molte. Ad esempio la biografa in declino di Can you ever forgive me? Il maledetto vezzo della distribuzione italiana di trasformare l’originale titolo “Can you ever forgive me?” della regista Marielle Heller – dall’omonimo libro di Lee Israel (1939-2014) cui il film si ispira – nel più anonimo e ondivago Copia originale, sottrae alla storia quel riferimento ipertestuale e letterario – nello specifico la straordinaria presenza di Dorothy Parker, vero e proprio genius animi della protagonista – senza il quale si smarrisce buona parte delle allusioni, delle sfumature e della fragranza di un film accattivante, sostenuto da una regia impeccabile e da una sceneggiatura (di Nicole Holofcener e Jeff Whitty) davvero notevole. Lee (Melissa McCarthy, ottimamente doppiata da Francesca “Heidi” Guadagno, si era più che meritatamente guadagnata una candidatura all’Oscar come miglior attrice protagonista) non certo una modella, cinquantenne, cicciotta con una evidente passione per l’alcool (che le costa pure il lavoro), i migliori anni alle spalle (o forse non ci sono mai stati), è una scrittrice specializzata in biografie.
Ma non riesce proprio a mettere ordine alla sua ispirazione (non pubblica da anni), alla sua casa assediata dalle mosche e dall’incuria e soprattutto ai suoi conti, visto che i suoi libri non solo non vendono ma sono in liquidazione: ad un umiliante ribasso del 75%. Nemmeno la sua vecchia gatta pare darle un po’ di conto. Qualche fugace apparizione alle feste (galanti) newyorkesi, organizzate dalla sua agente ed editrice – “le cui lettere hanno il calore dell’elenco telefonico” – nelle quali è assolutamente fuori posto: meglio allora ingozzarsi sul divano guardando vecchi film in bianco e nero con Bette Davis. Nella sequenze iniziali del film il sottofondo di una nostalgica e calda “Trought of you last night” (dalla voce di Jeri Southern) è il giusto contrappasso al suo serale squallore nella casa dell’Upper West Side dove Lee vive: e tutta la magnifica, sontuosa colonna sonora farcita di jazz, è il contraltare per calore e passione all’esistenza piatta e introversa di questa donna. Una vita che vira d’improvviso, allorquando durante una delle solite e noiose ricerche d’archivio alla New York Public Library, Lee si ritrova una lettera originale di Fanny Brice (una celeberrima attrice delle Ziegfeld Follies a Broadway, di cui vorrebbe scrivere la biografia) e la rivende. Da qui il colpo di genio: perché non falsificarne altre e di altri celebri scrittori con tanto di firma? Il talento è allora una serie di macchine per scrivere vintage, con le quali Lee comincia la sua carriera di falsi d’autore: da Noel Coward a Marlene Dietrich, da Louise Brook fino a quella stessa Dorothy Parker di cui Lee è grandissima estimatrice. Già: “il poeta è un fingitore”, ammoniva Pessoa e Lee sembra far decisamente sua questa massima, la sua esperienza poi di scrittrice le consente di entrare in quelle vite, farle proprie, sostituirle quasi alla sua. E’ così brava a scrivere lettere apocrife che “la sua Dorothy Parker è meglio della Dorothy Parker” originale. Le lettere vanno a ruba, contese da biblioteche antiquarie e collezionisti: i conti si sistemano, l’affitto pure e le sbronze sono finalmente di ottima qualità.
L’incontro con un vecchio amico gay, Jack Hock (un Richard E. Grant in forma smagliante) – “sei finocchio, vero?” taglia subito corto lei – le schiude un’amicizia e una complicità partecipe, litigiosa e alcolica: dagli innocui scherzi telefonici alla falsificazione e alla vendita, che diventano per i due una lucrosa attività a tempo pieno. Fino a quando ci mette lo zampino l’FBI e le cose precipitano: Lee, processata, viene condannata a cinque anni con la condizionale e posta agli arresti domiciliari, durante i quali comincia proprio a scrivere il libro che il film racconta (e il cui titolo è a sua volta tratto dalla citazione di uno dei “falsi d’autore”) mentre Hock, malato di aids, esce mestamente dalla sua vita. Insieme alla vicenda personale di Lee Israel, “Copia originale” raccoglie per brevi folgoranti sequenze anche il mondo impietoso e feroce delle case editrici e degli scrittori. Quando in una scena al vetriolo la sua agente le fa notare che “a Tom Clancy danno tre milioni di dollari per un libro pieno di stronzate di destra”, Lee rincara: “lui è il tipico maschio bianco inconsapevole di scrivere cazzate a bizeffe”. Le battute valgono più di un convegno accademico e di pagine di bibliografia. Ma c’è anche un altro aspetto che rende seducente la regia di Marielle Heller e la fotografia di Brandon Trost: nella rappresentazione visiva di New York – panorami crepuscolari e notturni, insegne al neon – che la tromba di chet Baker sottolinea in “Trav’lin’ Light” – strade, interni – “Goodnight ladies” di Lou Reed nella versione transgender di Justin Vivian Bond è una perla – la nostalgia perenne di Woody Allen, ovvio e inarrivabile riferimento (da “Manhattan” a “Io e Annie”), si è mutata in una tristezza lucida e stoica, nello sguardo disincantato di una donna disillusa che fa i conti con una vecchiaia che si avvicina sordida. Eppure quegli anni per Lee saranno maledettamente unici. E favolosi. “Let me tell you, now, goodnight ladies, ladies goodnight It’s time to say goodbye. Ah, all night long you’ve been drinking your tequilla rye. But now you’ve sucked your lemon peel dry…” [3]
Oppure la volitiva ecoterrorista di Woman at War di Benedikt Erlingsson. Cosa possiamo fare per contribuire alla causa ecologista? Spegnere tutte le luci inutili? Tenere il riscaldamento rigorosamente sotto i 21°? Fare la spesa preferendo prodotti locali e privi di imballaggi eccessivi? Halla, che nel suo bel salotto tiene appesi alle pareti i ritratti di Ghandi e Mandela, pensa di darsi piuttosto al sabotaggio dell’industria dell’alluminio che una multinazionale cinese sta portando in Islanda, con forti ripercussioni per l’ambiente.
Halla è la protagonista del film di Benedikt Erlingsson “Woman at War”, (“La donna elettrica” per il pubblico italiano) che fa impallidire ogni Lara Croft, con buona pace di Angelina Jolie e delle sue epigoni. Bellissima di una bellezza autentica, senza un filo di trucco. Statuaria e resistentissima allo sforzo fisico, senza traccia di liposuzione e doping. Appassionata, senza l’ombra di una scena di sesso arroventato.
Halla insegna a un coro il bel canto polifonico islandese, e poi, nel tempo libero, si arma di arco, freccia e idealismo, e va a combattere, sola, novella vichinga, la sua lotta contro un progresso irrispettoso della natura: attacca i piloni dell’elettricità nella brughiera islandese, provocando blackout che danneggiano la produttività degli altoforni e causando la mobilitazione di droni, elicotteri e agenti di polizia che setacciano le linee della corrente elettrica nel paese. Per tutta risposta, a lei basta mettere il telefonino in frigo per evitare intercettazioni, nascondersi nella carcassa di un montone, come Leonardo Di Caprio di The Revenant, ma senza l’aura di eroismo sovrumano, per far perdere le sue tracce. Al suo posto, le disorientate forze dell’ordine catturano più volte sempre lo stesso giovane sudamericano che si trova a fare cicloturismo nei pressi delle operazioni di Halla, per poi rilasciarlo per essere estraneo ai fatti.
Questo accade già dalle primissime scene, contribuendo a creare quella trama parallela di surrealismo ironico che percorre tutto il film, a un tempo molto concreto e insieme fiabesco: Erlingsson affianca scene di vita quotidiana nella piscina municipale di Rejkjavik, con spogliatoi pieni di corpi nudi schiettamente realistici, all’atmosfera paradossale quasi alla Kusturica creata dalla presenza in scena dei musicisti che producono dal vivo la colonna sonora del film, affidata a un trio piano/fisarmonica, tuba e percussioni. A questo spaesante terzetto di improvvisatori folk si unisce un trio di voci femminili ucraine, che ricordano la funzione del coro antico: sembrano quasi parteggiare per la protagonista con le loro canzoni tradizionali incomprensibili ma a modo loro armoniose, anch’esse antisistema, che cominciano ad accompagnare il paesaggio sonoro quando Halla scopre che, dopo 4 anni dall’iniziale richiesta, le è stata accordata l’adozione di una bambina di 4 anni, rimasta orfana per la guerra nella zona di Donetsk.
L’effetto straniante di questa cornice di “realismo utopico” si completa con il rapporto della donna elettrica con la natura selvaggia dell’Islanda, dove Halla finisce per mimetizzarsi mischiandosi alle pecore o infilandosi nelle pieghe del terreno, tra muschi e ghiacciai, dove quella natura da proteggere è sì a sua volta protettiva ma anche dura e indifferente all’eroina che lotta strenuamente in sua difesa. Per fortuna c’è un presunto cugino di secondo grado a darle man forte. Insomma suona concretissimo ma un po’ troppo volontaristico lo sforzo di provare a preservare un futuro migliore, noi che siamo l’ultima generazione a poterlo fare, come scrive Halla nel volantino di rivendicazione che letteralmente lancia dai tetti della città. Missione che però nel finale sembra essere sostituita dalla necessità umana avvertita da una donna, matura e idealista, di riparare il trauma di una bambina sola al mondo, andandosela a prendere in un’Ucraina dove piove tantissimo, irrimediabilmente.
La convincentissima Hallora Geirharðsdóttir interpreta l’eroina volitiva e razionalmente incrollabile, e insieme anche la sorella gemella, maestra di yoga, pronta a partire per un ashram indiano dove dedicarsi solo alla meditazione e alla conoscenza profonda di sé. Modi diversi d’interpretare lo stare al mondo e la possibilità di innescare i cambiamenti, dall’esterno o dall’interno, punti di vista che possono scontrarsi e che dimostrano la complessità del reale, senza risolverlo in letture univoche. Quello che però esce vittorioso è la possibilità di credere ancora davvero in una qualche salvezza, di far risuonare insieme voci diverse, come in un coro; e la convinzione che, in fondo, siamo tutti un po’ cugini presunti e ci possiamo aiutare a vivere l’un l’altro, almeno un po’. [4]
O ancora la Colette di Wash Westmoreland, ovvero come si costruisce un mito. Il film infatti ci fa comprendere come una semplice ragazza di campagna sia diventata una delle più note scrittrici del ‘900.
Nell’incipit Gabrielle Sidonie Colette ha diciannove anni e viene chiesta in sposa da Henry-Gauthier Villars (Willy) impresario e scrittore, nonché grande seduttore e frequentatore del bel mondo parigino. Per Colette i primi tempi nella capitale non sono semplici ma pian piano riesce a trovare il suo posto in società, soprattutto dopo che comincia a scrivere libri per il marito (che ufficialmente ne è l’autore). La saga di Claudine avrà un successo commerciale incredibile e marito e moglie diventano una delle coppie più ammirate e discusse di Parigi.
Dopo aver incontrato la marchesa Mathilde de Morny, che si presenta in società con abiti maschili suscitando scandalo, Colette (appassionata e sottile l’interpretazione di Keira Knightley) acquista più sicurezza e consapevolezza fino a comprendere le ingiustizie che per anni ha subito dal marito, il quale non solo le ha rubato la paternità di Claudine, ma ha anche sperperato i soldi da lei guadagnati.
La scelta del tempo narrativo in un film rivela molto sulle intenzioni dell’autore. Per esempio il fatto che quasi tutto, tranne gli ultimi quindici minuti, sia dedicato al matrimonio e al sodalizio artistico tra la scrittrice e Willy è indicativo di quale sia la priorità del regista: mettere in luce il ruolo fondamentale di Henry-Gauthier Villars nella creazione del successo della scrittrice. È assolutamente vero che senza Willy difficilmente Colette avrebbe avuto qualche chance nel mondo letterario di Parigi; originaria della Borgogna, povera e senza contatti non sarebbe mai stata presa sul serio. D’altronde non era neanche suo desiderio scrivere e fu lo stesso marito a “costringerla” a cominciare per ripagare i suoi debiti. Ma allo stesso tempo è innegabile che Colette abbia avuto almeno dieci esistenze, otto delle quali dopo aver divorziato dal marito (si tenga conto che ha vissuto altri 50 anni dopo la separazione).
Quindi è veramente un peccato che il regista si sia concentrato su quel periodo, tralasciando molte avventure ed esperienze di questa straordinaria e poliedrica artista, che fu anche attrice, mimo, giornalista e che fu la prima donna nella storia della Repubblica Francese a ricevere i funerali di Stato. Un peccato, tanto più se si considera che l’unico altro film girato sulla scrittrice, Becoming Colette (1991) di Danny Houston, prende in considerazione esattamente lo stesso frammento temporale coincidente con il matrimonio. [5]
L’ostracismo sociale colpisce duramente le amanti protagoniste di Disobedience di Sebastiàn Lelio. Ronit, fotografa newyorkese di successo, rientra a Londra nella comunità ebraico-ortodossa dov’è nata dopo aver appreso, in modo piuttosto oscuro, la notizia della morte del padre, il rabbino Krushka. Siamo in autunno e una patina parzialmente trasparente avvolge l’intero quartiere – le case anonime, i cortili, gli interni, gli steccati, i prati e un grande albero dai rami nudi. In mezzo a questi uomini che trascorrono la vita studiando la Torah e i commenti alla Torah e le note ai commenti alla Torah, e alle loro donne adunche e imparruccate, il Tempo si è fermato per sempre. Non c’è traccia delle aperture attuate dall’ebraismo riformato. Si venera e rimpiange il ‘gigante della fede’ appena scomparso, celebrando lo Shabbat secondo regole restrittive e rituali millenari: la recita del Kiddush e della Havdalah, l’accensione delle candele, la preparazione di piccole coppe di vino. La parola Elohim viene pronunciata in tono quasi estatico, dimenticando che il suo significato primitivo è E-l hem, ‘la loro potenza’, segno di una molteplicità divina venerata nella terra di Canaan.
Ronit viene accolta con stupore, imbarazzo e addirittura ostilità. La fuggiasca, l’eretica, la difforme, la ribelle, colei che ha voltato le spalle al padre, agli amici, alla fede e al suo popolo per vivere fra i gentiles. Fuma e non accetta di essere ridotta al silenzio dallo zio supponente e integralista, risponde alle critiche acide delle donnette con provocazioni taglienti. No, non è sposata, no non ha figli, no preferisce non togliere la sciarpa. Eppure soffre la perdita di un’identità che sente necessaria, soffre sotto gli sguardi di quelli che un tempo vedeva ogni giorno, sguardi aguzzi come pietre pronte ad essere scagliate contro l’immoralista sorpresa dal padre in intimità con l’amica Esti, diventata durante la sua assenza moglie del giovane rabbino Dovid.
Viene ospitata da Dovid, o meglio relegata, in una camera/soffitta angusta, dalle finestre impossibili da aprire, dentro la penombra di un malva smorto e deprimente. Sottratta agli sguardi, come si faceva una volta con i figli minorati, perché non gettassero vergogna sulla famiglia. I sentimenti però sfuggono a qualsiasi tentativo di controllo. L’attrazione fra Ronit ed Esti (Rachel Weisz e Rachel McAdams) torna in superficie con rapidità, le due ragazze non riescono a non toccarsi, a non baciarsi. Come nel Cantico dei Cantici (citato nel film) l’amore diventa il punto di contatto fra senso simbolico e senso naturale, fra eros e metafisica. Ma i depositari del verbo e custodi della fede (e della morale) sono ovunque, spiano bramosi di avvistare e censurare il Male, additare la colpa, mettere alla gogna, lapidare con la foia cieca degli esaltati.
Il cardine di Disobedience consiste esattamente in questa continua collisione fra l’identità culturale originaria (le cui tracce vengono seguite da Ronit ovunque, persino nei sapori dei dolci kosher) e quella individuale. L’unica strada percorribile sembra ogni volta la fuga: la ragazza ripete torno a New York quasi come un mantra, un’ammissione di colpa o di impotenza, un esorcismo di fronte all’incapacità di liberarsi per davvero dai retaggi e dai condizionamenti delle ombre dei Padri.
Per vivere un pomeriggio insieme senza l’angoscia della continua sorveglianza, Esti e Ronit usciranno dalla piccola, crudele Gerusalemme per attraversare la vera Londra, viva e affollata: la metropolitana, i bus, il vicolo con le pietre scabre accese di sole, l’albergo dove la testa di Ronit troverà una pace transitoria sul ventre di Esti.
Le vite di tutti i protagonisti verranno sovvertite dagli eventi e dai tormenti interiori. Dovid si scopre troppo umano, quindi inadatto a succedere al rabbino Krushka. Esti, in attesa di un figlio, subisce un’evoluzione interessante, riuscendo a conciliare la ritrovata libertà e la promessa fatta a Ronit con l’amore per Hashem, termine che rappresenta il dio nascosto, o l’impronunciabilità del nome di dio.
Ronit, pur non rinunciando all’indipendenza, rende omaggio nella sequenza finale alla tomba del padre, mostrandosi ancora una volta incapace di sottrarsi al dogma maschile. E’ vero che Krushka muore parlando ai fedeli di libera scelta ‘concessa’ da dio agli uomini, ma sembra davvero poco per parlare di interpretazione della Torah in chiave innovativa. [6]
Soggetto borderline Lisbeth Salander lo è fin dalla sua nascita letteraria. Il passato è come un buco nero, se ti avvicini troppo ti risucchia e tu sparisci, dice il piccolo August giocando a scacchi con Lisbeth. E’ un genio matematico precoce, avvolto in un silenzio spaventato ma munito di un istinto di sopravvivenza quasi animale, conteso dai servizi segreti di due stati (USA, Svezia) e da un’organizzazione criminale russa, alquanto high-tech, di psicopatici attratti dal potere fine a se stesso. Punto di regresso cuspidale della banda è Camilla Salander, rivestita di quel colore rosso che in natura segnala un pericolo spesso letale e in alchimia, se troppo acceso come in questo caso, identifica uno squilibrio emotivo. Proprio la sorella di Lisbeth, abusata per tutta la vita da un padre pedofilo e sadico eppure sua complice, rappresenta per la giovane hacker il passato da cui fuggire per non esserne divorata e nello stesso tempo l’Ombra con cui fare i conti ogni giorno, la compagna oscura e sussurrante che infesta i suoi pensieri e le sue azioni. Di quest’Ombra ossessiva, nel precedente Uomini che odiano le donne di Fincher, era rappresentata da Rooney Mara, con intuizioni geniali e un’economia espressiva davvero rara, la natura ignota, indefinita, archetipica, che diventa condanna a vivere su un buio fondale sabbioso, o all’interno di un corpo opaco nel quale non arriva luce, né arriverà mai.
Partendo da quel corpo celeste che non emette alcuna radiazione a causa dell’intensità del campo gravitazionale, Fede Álvarez e Claire Foy disegnano una Lisbeth molto diversa. In Quello che non uccide l’Ombra è un tormento definito e cosciente, un arrovellarsi moderno e per questo meno emozionante e incisivo. L’humus del possibile si trova nelle cavità recondite dell’Ombra, nel non conosciuto. La rivelazione proveniente dall’esterno, narrativa, esplicativa, e non da un’immersione soggettiva, anche rischiosa, in profondità insondate, in acque abissali, riduce l’apparizione continua eppure sfuggente a un sacco vuoto che ci trasciniamo dietro. E il film a un sontuoso, ansiogeno action movie con sfumature da intrigo internazionale, il cui pregio maggiore è la scelta di situare molte sequenze in ambienti distorti dal turbamento visionario di Lisbeth (la discoteca sotterranea, la casa/caverna, vuota e tecnologica, in costante penombra, i corridoi della casa paterna, che si restringono e si allungano allontanando la luce), o negli edifici in frantumi, dispersi in mezzo ai boschi denudati dall’inverno, che la trasformazione dell’economia da processo produttivo a nebulizzazione in software sempre più avanzati e veloci (il tempo è il fuoco che ci divora) si è lasciata alle spalle come rovine di una civiltà scomparsa. I soffitti a cupola dai vetri rotti da cui gocciola umidità, i pavimenti coperti di detriti e neve, le rampe strette di scale che si avvitano su se stesse con angoli retti fra un pianerottolo e l’altro, suggeriscono, come i migliori racconti di Bradbury, la fine di un ciclo umano. [7]
Non lascia niente di intentato Florence Green, nella Casa dei Libri, per portare in un villaggio della costa britannica il suono dei romanzi, le innumerevoli voci che vivono dentro un’opera letteraria. Ma non le basteranno cuore e pazienza, né le sarà sufficiente la qualità che un numero esiguo di esseri umani ha in comune con Dei e animali: il coraggio. Niente di tutto questo difenderà il suo smisurato amore per i libri e il sogno di aprire un bookshop in una cittadina del Suffolk dalla granitica ignoranza degli abitanti di Hardborough, per i quali la realtà basta e avanza, e soprattutto dalla leggiadria velenosa di Mrs. Violet Gamart (un’irresistibile Patricia Clarkson), dama manierata e suadente che progetta di fondare un Centro d’Arte (musica da camera d’estate e conferenze culturali in autunno) proprio nella dimora storica, abbandonata da anni e fatiscente, acquistata da Florence.
Costantemente dedita ad ammirare la propria immagine di influente mecenate dai nobili sentimenti ossequiata e temuta dagli amici e dal volgo, Mrs. Gamart si servirà di chiunque, dal fatuo giornalista della BBC incline al parassitismo ai banchieri, dagli avvocati (i manipolatori di professione mostrano spesso un inquietante trasporto per i legulei, forse per la comune attitudine ad alterare i fatti) agli ispettori scolastici, dai periti comunali al nipote parlamentare, per espropriare Florence e cacciarla da Hardborough.
Eppure la tenace resilienza di Florence (Emily Mortimer), nonostante la sconfitta finale, non sarà stata vana. L’apertura della libreria, quella breve felicità fatta di pagine stampate e profumo di carta, di idee, di parole, ha fatto nel frattempo affiorare nell’animo di alcune persone il desiderio di qualcosa di diverso dall’apparenza, l’informe bisogno di imparare a immaginare, quindi a vedere. Perché un libro ti porta via, conducendoti in un numero infinito di mondi, mondi che poi impari a ricreare incessantemente, sempre diversi a seconda delle età della vita. Le storie ti entrano nel sangue e proliferano in altre storie, in una narrazione senza fine.
Così un gruppo di bambini aspetta Florence per ore sotto la pioggia per aiutarla a montare gli scaffali, e la madre di Christine, una ragazzina che diventerà personaggio essenziale della vicenda, istintivamente accarezza e sposta i libri con la malinconia di chi non ha avuto accesso all’istruzione e ne prova una pena segreta.
Florence riesce persino a sciogliere la brina che ricopre il cuore amareggiato di Edmund Brundish, anziano bibliofilo talmente deluso dall’umanità da bruciare nel camino le copertine con le foto degli autori, preferendo rappresentarsi i libri come entità scaturite da fenomeni di partenogenesi. Vive recluso nella casa più antica di Hardborough, circondata da un parco rinsecchito, uscendo solo dopo il tramonto per passeggiare nelle strade deserte del villaggio. Ed è durante uno dei suoi giri serali che si accorge dell’insegna della libreria e comincia a inviare lettere misurate e incuriosite, quietamente ironiche, a Florence, diventando il suo primo cliente. La invita a non proporgli libri pretestuosamente complicatio di poesia, e si innamora perdutamente di Bradbury, divorando Fahrenheit 451 e The Martian Chronicles. La sua mente, ancora aperta alla novità, si rigenera leggendo Lolita di Nabokov. Nasce una vera, profonda amicizia con Florence, nutrita di stima e ammirazione, e venata di rimpianto per non aver conosciuto la donna in un’altra vita. La finissima interpretazione di Bill Nighy trova mille sfumature sommesse per disegnare un personaggio che difende la vulnerabilità di fondo con un pacato sarcasmo. Appare quasi divertito mentre commenta davanti a un plum cake ordinato appositamente per Florence le chiacchiere fiorite intorno alla sua presunta vedovanza. La versione più recente ricamata dalle signore di Hardborough è che la moglie sia annegata in una palude mentre andava a raccogliere delle more per cucinargli una torta. In realtà, sua moglie l’aveva semplicemente lasciato dopo sei mesi di matrimonio, e viveva felice e in piena salute a Londra.
I loro rari incontri nella brughiera mossa dal vento, in prossimità delle rocce e del mare, sono un omaggio alla solitudine orgogliosa e nello stesso tempo alla letteratura inglese dell’Ottocento. Persino quella delle orribili sorelle Brontë.
Solo nel tentativo di salvare la Old House Bookshop, Brundish abbandonerà il suo isolamento per parlare con Lady Violet e tentare di dissuaderla dal proseguire la persecuzione nei confronti di Florence.
La scena che mostra lo scontro fra Edmund e Mrs. Gamart nel salotto della Signora si esalta grazie a una stepitosa costruzione dialogica. Brundish oppone al té garbato e conformista di Violet, alle sue risposte ellittiche quanto insensibili, un’invettiva in cui a poco a poco sale il tono dell’indignazione contro un milieu di notabili sogghignanti abituati a misurare l’emozione in scellini e svilire la cultura affogandola in pettegolezzi da ballatoio, e di landed gentry, legata al potere politico londinese, per la quale l’epifania poetica si traduce in citazioni vuote di senso e di vita, occasioni mondane e parties dove ostentare la propria sfolgorante nullità. Come non ricordare Jourdain? Il Borghese gentiluomo di Molière, che si compiace di parlare in prosa e, innalzandosi nell’azzurro del cielo come un palloncino colorato, si sottrae lentamente, con lievi oscillazioni, alla nostra vista.
Edmund morirà prima di rientrare a casa, davanti al cancello, il cuore incrinato irreparabilmente non dallo sforzo ma dallo sdegno, dalla coscienza di una violazione dell’ordine naturale delle cose, di un’ingiustizia crudele e gratuita verso la passione, il merito, l’utopia possibile. Utopia che, a poco a poco, accende il cuore di Christine (Honor Kneafsey), l’aiutante bambina di Florence, poco amante dei libri all’inizio e con una predilezione per la geografia e la matematica. Il progredire della familiarità fra la libraia e la fanciulla, e fra il significato profondo dei libri e Christine, è una delle parti più intense del film. L’attenzione della regista Isabel Coixet ai gesti necessari della quotidianità (sistemare le cartoline, spolverare i libri, consigliare i clienti, rimettere in ordine, tenere il registro, preparare gli ordini da spedire per posta, confezionare i pacchetti legati con lo spago, accendere la vecchia stufa a kerosene per difendersi dall’umidità, scherzare in modo quasi infantile) tende a evidenziare come questi possano cambiare il mondo interiore, indicare vie nuove, percorsi inaspettati.
Christine, volitiva e ribelle, ristabilirà una sorta di giustizia dando fuoco alla Old House esattamente nel momento in cui Florence sarà costretta a lasciare la città. Se la Casa non potrà essere una libreria non diventerà neppure un futile Centro d’Arte. Da adulta realizzerà il sogno di Mrs. Green diventando lei stessa una libraia. Solitaria e orgogliosa. [8]
Quanto al giudice Maye creato da McEwan, ci mostra l’importanza del dubbio e dell’ascolto violando in The Children Act di Richard Eyre ogni ortodossia procedurale. La luce del primo mattino, ancora bagnata di notte, tenue poi sempre più vivida, definisce il nitore delle linee interne dell’appartamento londinese del giudice Fiona Maye: il parquet di legno nudo, grigiognolo, coperto a tratti da piccoli, eleganti tappeti a losanghe dalle tonalità verde spento, rosso, ocra chiaro, la sobrietà e l’ordine di ogni oggetto e mobile. Sulle pareti scivola l’evanescenza di un tempo sospeso, i vuoti albeggianti di Hopper e la solitudine rappresa nel fermo immagine di Arrangiamento in grigio e nero di Whistler. Sentimento di solitudine che si è incollato addosso al giudice dalla sera prima, insieme alla rabbia che prova chi riceve un colpo inaspettato, o un’ingiustizia crudele e incomprensibile.
Suo marito Jack se n’è andato per il fine settimana, rimproverandola, con sfumature di rassegnazione malinconica e rimpianto, di non avere più interesse al contatto fisico e rivendicando la necessità e il diritto a un’avventura, pur senza voler mettere a rischio il loro matrimonio. Fiona reagisce con sdegno, e con la muta consapevolezza (che tuttavia si rivela nei gesti appena accennati, delle mani in particolare, di ritrazione definitiva, irreversibile) di non potergli offrire quell’affettuosità che sente di non possedere più.
La legge si è impossessata della sua vita, persino del suo corpo, delle sue forme mentali. Durante i fine settimana è sempre di turno per le emergenze, sempre reperibile, sempre pronta ad organizzare udienze per casi urgenti, spesso casi di vita o di morte. Si occupa di diritto di famiglia e tutela dei minori, bambini e ragazzi smarriti nell’ottusità e nei contrasti degli adulti, di chi dovrebbe potreggerli e invece li usa come mezzi di rivalsa, ricatto e potere. Oppure bimbi gravemente malati, o gemelli siamesi destinati alla morte, che è indispensabile operare per poterne salvare almeno uno. Il giudice Maye impiega la maggior parte del tempo della sua vita ad esaminare i dossier, ad ascoltare testimonianze e consulenze, a guardare, nella penombra dello studio, le foto dei ragazzi, per capire meglio, per non cedere terreno all’emotività e alla confusione. In fondo, incarna ed esprime nelle sue meditate, asciutte sentenze, l’aspetto nobile e laico della Legge, conscia che il mondo nasce dal Caos e tende incessantemente a deragliare nell’entropia, e quindi che la giustizia debba diventare un atto creativo, separando i vari elementi, tracciando delle linee invisibili quanto ferme per dare forma a un’idea di società umana il più lontana possibile dalla sopraffazione, dai luoghi comuni, dai vari settarismi e millenarismi. Per dare un’opportunità di vita e felicità ad esseri ancora in formazione, superando fatalismo e darwinismo. Con Jack condivide idealmente il concetto che la specie umana abbia avuto un solo periodo felice, situato tra la fuga degli Dei e l’avvento del cristianesimo, quando l’uomo è rimasto da solo a guardare in faccia se stesso.
Nei momenti liberi si dedica al pianoforte, addentrandosi nel perfezionismo matematico delle sarabande, con l’alternanza scientifica di semiminime e minime, anche in questo caso alla ricerca di un ordine che sia denso e complesso, legato alla connessione delle idee. E, approssimandosi il periodo natalizio, si diverte provando insieme a un collega avvocato con velleità tenorili delle canzoni tradizionali per una festa della high society.
Proprio durante il primo weekend solitario il suo deferentissimo, devoto, trepido cancelliere/maggiordomo (un personaggio che non avrebbe sfigurato nel teatro di Shakespeare, anche per le garbate controscene brillanti di cui è il motore) le annuncia un caso di estrema gravità e urgenza: Adam Henry, un diciassettenne la cui famiglia milita nei Testimoni di Geova, affetto da leucemia, si trova in ospedale e necessita di trasfusioni di sangue per avere una speranza di vita. Naturalmente la famiglia, e lo stesso ragazzo, si oppongono per i motivi risaputi: il sangue coincide con l’identità ed è un dono di dio, perciò mischiare il proprio sangue con quello di un’altra persona significa rinnegare dio e se stessi, uscire dalla Verità (si sa bene che esiste una Verità inconfutabile per ogni fanatico che infesta questo sfortunato pianeta).
Ciò che colpisce il giudice, durante l’udienza organizzata in tutta velocità per il martedì successivo, è il ritratto che i testimoni fanno di Adam. Un ragazzo insolito, profondo, sensibile, amante dello studio e della poesia. Elementi caratteriali che lo differenziano dalla cieca caparbietà biblica della setta cui ha aderito e che spingono Fiona ad adottare una procedura insolita e tutto sommato inutile, dato che in casi come questo la decisione del giudice è scontata, ossia incontrare Adam in ospedale per ascoltare le sue motivazioni.
Quando decidiamo di incontrare l’Altro intraprendiamo sempre un viaggio di formazione, ed è quello che succede a Fiona. Nella stanza asettica d’ospedale si trova davanti un ragazzo sofferente, già toccato dal pallore della morte, bello come un poeta romantico, deciso a immolarsi per la propria fede eppure stranamente appassionato e legato alla vita in modo febbrile. Il colloquio prende subito una direzione inaspettata, i due si vedono e si ascoltano a un livello non razionale bensì emotivo. Fiona nell’ardore di Adam ritrova il tempo della sua adolescenza libera e selvaggia passata a Newcastle con le cugine, dove il limes romano fortificato segna ancora oggi il confine fra Inghilterra e Scozia. Adam (Fionn Whitehead) si accende di entusiasmo davanti alla composta, nuda umanità del giudice, e dai toni messianici passa a una concitazione stupita. Un ragazzo speciale, molto fragile e solo, che le mostra la chitarra del nonno coperta di tracce di vita e accenna Down by The Salley Gardens di Yeats, che finiranno per cantare insieme, osservati con disappunto dall’assistente sociale, in una delle molte scene capolavoro del film.
Al momento di separarsi Adam la supplica di restare ancora un po’, ma è il turbamento stesso a indurre Fiona a uscire con decisione dalla camera, citando proprio un verso di Yeats, la vita è come l’erba/va presa come viene, in modo lievemente ironico. E sforzandosi di non girare la testa verso le città in fiamme che la lambiscono con il loro calore e rischiano di avvincerla.
Grazie alla sentenza di Fiona, Adam migliora, viene dimesso e riprende gli studi. Ma non è più lo stesso, non crede più nei genitori né nella loro fede ossessiva. Un continuo vento di pensieri, di domande senza risposta, di poesie, gli attraversa la testa. E’ disancorato, vorrebbe una guida, qualcuno in grado di accoglierlo e proteggerlo. Qualcuno che desideri amarlo. Cerca disperatamente Fiona con ogni mezzo, le scrive, le telefona, le lascia messaggi registrati, fa in modo di trovarsi nei luoghi che frequenta, la ferma, le parla con il trasporto numinoso di un giovane veggente, di un poeta in preda alla follia.
La donna cerca di segnare le distanze, di indurlo ad allontanarsi; è dura, secca, irremovibile perché ha paura di se stessa, del sentimento che a poco a poco si sta impadronendo di lei, oltre ogni ragionevolezza e ogni dovere deontologico e morale. Adam riesce a rintracciarla persino durante un viaggio di lavoro nel Nord dell’Inghilterra, proprio a Newcastle. Una sera sfida la pioggia battente per andare a trovarla nella dimora di campagna dov’è ospite, edificio austero e respingente con le sue stanze gelide e le colonne esterne coperte alla base di muschio. Dopo una conversazione in cui le confida i motivi per cui durante i giorni trascorsi in ospedale sarebbe morto volentieri (dilatazione dell’ego, immaginare le esequie con i propri cari afflitti, la ‘bella morte’ con tanto di eroico martirio diffuso dai media, ecc.) e il cambiamento interiore seguito alla visita del ‘suo’ giudice, le chiede apertamente di diventare la sua guida, di accoglierlo in casa, di rispondere alla sue domande, di aiutarlo a capire.
Con un gesto estremo di volontà, che le causa una visibile ferita emotiva, il giudice Maye chiede al cancelliere di chiamare un taxi per riportarlo alla stazione. Fiona indossa un abito corto color prugna, scuro semplice ed elegante, che a seconda dei movimenti rilascia riflessi di seta che fanno pensare alle squame iridescenti di Geraldine, la dama fatale e ultraterrena del poema di Coleridge. Disperato, sulla soglia di casa, dentro un velo di pioggia, Adam la bacia sulle labbra, prima di allontanarsi. Quel bacio sarà un dono decisivo e insieme una dannazione.
Adam morirà poco tempo dopo, la notte di Natale, ripreso dal male e deciso a non curarsi. Non per dio o una qualsiasi fede, ma per essere libero. Fiona farà in tempo a salutarlo un’ultima volta in ospedale, dopo essere fuggita dalla festa nella quale stava suonando Down by The Salley Gardens, stordita dal dolore. Abbandonandosi al pianto racconterà al marito, in un momento di ritrovata complicità, tutta la vicenda e i suoi sentimenti per quel ragazzo insolito e straordinario.
Resta da dire che Emma Thompson è una di quelle rarissime interpreti che si sono recate in luoghi ignoti ai più a sperimentare l’essenza della cognizione del dolore e sono tornate indietro per mostrarcela, con una ricchezza di sfumature, di sottigliezze, di controllo e rivelazione, di ironia e strazio senza uguali nella storia del cinema. [9]
Irriducibile e non convenzionale la madre coraggio disegnata da Julia Roberts in Ben is Back di Peter Hedges. Non sappiamo il nome della località, né quello dello Stato in cui si svolge, nell’arco di un giorno e di una notte, la storia di Ben e della sua famiglia. Non ha importanza, si tratta di una delle mille cittadine della provincia americana con le case di legno dai tetti spioventi, fissata dal nitore ghiacciato di una fotografia che delinea gli elementi invernali per estrarne la profonda malinconia, l’assenza di luce, l’indifferenza, la spietatezza: i cristalli di neve vorticano nell’aria fino ad accecare, la brina uccide l’erba intorno alle tombe e si deposita a chiazze in tutto il cimitero dove Holly Burns presa da una disperazione fredda, lucidissima, porta il figlio Ben perché possa scegliere dove essere sepolto dopo una morte per overdose che si annuncia prossima.
Tutto nasce sempre da un senso di inadeguatezza che cerca sollievo, in un modo qualsiasi. Può derivare dalla mancanza di un padre, fuggito chissà dove lasciando moglie e figli piccoli, dalla povertà, dal non riuscire a sentire se stessi, o meglio dal sentirsi incompleti, informi, diversi dai membri della piccola comunità chiusa di cui (non) si fa parte, vulnerabili davanti agli sguardi di sufficienza di chi ha solo avuto un po’ più di fortuna. Si chiama male di vivere, e non è detto che si riesca a reagire.
Ben e altri ragazzi come lui, Spencer per esempio, o Maggie, morta per overdose, cercano una protezione dalla realtà nell’eroina, un isolamento privo di pensieri e di infelicità, un meraviglioso benessere mentale e fisico. Una leggerezza che col tempo diventa schiavitù e assenza di speranza, pensiero fisso, ossessivo, dipendenza che si sostituisce alla vita, ingoiandone ogni secondo. Sofferenza organica che si autoalimenta con l’illusione o semplicemente la necessità di trovare qualche ora di quiete. Non so più cosa significhi farsi, dice Spencer a Holly, desidero solo smettere di soffrire.
All’inizio diventano untori lisergici, diffusori entusiasti del morbo, perché è normale voler condividere un Eden appena scoperto che sembra la soluzione di ogni problema esistenziale. Poi, per alcuni, come Ben, arrivano i sensi di colpa nei confronti di famiglia e amici, la percezione angosciata di una vita ormai alla deriva, buia, senza sbocchi. Si tenta con la comunità di recupero, il più lontano possibile dal luogo di origine, con la terapia di gruppo, parlando ininterrottamente della propria dipendenza e dei propri errori affinché le parole prendano sostanza e formino barriere difensive contro il desiderio, costante, pungente, di tornare alla droga, di spegnersi in una pace di morte.
Ben lascia per un giorno la comunità terapeutica per trascorrere il Natale con la madre, la sorella Ivy, il patrigno e i due fratellastri ancora bambini. Senza dare ascolto al parere dello psicologo e senza avvertire i familiari. Viene accolto dalla madre con un’emozione bilanciata dalla risolutezza e, a tratti, dall’ironia, mentre la reazione della sorella e del patrigno è di ostilità e timore. Inizia una lunga, difficile giornata di confronti, scontri, reticenze, recriminazioni, in cui è il rapporto di Ben con Holly a diventare protagonista del film. E se Julia Roberts sorprende con una prova coinvolgente e sincera, in perfetto equilibrio fra asciuttezza e vibrazione interiore, il giovane Lucas Hedges, dallo sguardo adulto e dolente, si conferma il miglior talento della nuova generazione (da Manchester by the sea a Three billboards outside Ebbing, Missouri) rappresentando il senso morale frustrato che spinge Ben nello stesso tempo verso il riscatto e verso una fine che ai suoi occhi assume l’aspetto di un’espiazione.
Gli eventi precipitano verso sera, quando la famiglia, di ritorno dalla funzione natalizia, scopre che il cane Ponce è stato rapito. Madre e figlio in quel preciso momento trovano o ritrovano una sorta di simbiosi e prende l’avvio una ricerca in cui il cane rappresenta soprattutto il pretesto per scendere sempre più a fondo nell’analisi del legame reciproco, anche biologico, connesso alla sfera istintuale; analisi, o indagine, fatta di dialoghi, azioni, contrasti, silenzi, accudimento tenace, abbandono ai sentimenti.
Inizia anche la parte più visionaria del film, là dove viene varcata la soglia della notte come non luogo, come spazio della minaccia e del possibile, come desolazione periferica disseminata di drugstore dalle luci al neon coloratissime e abbaglianti, sorriso sinistro che accomuna tutte le facce dell’America da un oceano all’altro, da farmacie che ricordano Magnolia, da depositi di rottami, da anime perse e pusher suadenti, in un ‘fuori orario’ dai toni drammatici che diventa frenetico, iniziatico, incrociarsi, procedere insieme, separarsi di madre e figlio, con geometrie narrative mai casuali.
All’alba Ben, come un animale malato, andrà a cercare la morte in una rimessa abbandonata per mezzo di un’ultima dose di eroina. Holly riuscirà a salvarlo somministrandogli un antagonista oppioide (probabilmente narcan) datole dalla madre di Maggie, ma quest’ultima sequenza, cruda e piena di pathos, chiudendosi bruscamente lascia aperti tutti gli interrogativi sul futuro dei due. [10]
Nel corso dell’anno abbiamo ammirato la maturità artistica e umana di Lucas Hedges anche in Boy Erased di Joel Edgerton, nel quale interpreta un giovane omosessuale che il padre, predicatore battista, rinchiude in un Istituto dove viene praticata la ‘rieducazione’ all’eterosessualità, persino posturale. Le grandi stanze disadorne, prive di colori, stringono i ragazzi in una morsa concentrazionaria di stupidità, ignoranza, crudeltà gratuita che a tratti ricorda Nella colonia penale di Kafka, paradigma di ogni metodica sopraffazione. Non mancheranno le violenze psicofisiche (tali da condurre al suicidio uno dei giovani ‘curati’), con tanto di paraesorcismo, percosse inferte con la bibbia e bagno nell’acqua gelata, sempre a fin di bene per carità.
Immortale figura di madre divisa fra ragione e sentimento, Anna Karenina è stata il nume tutelare della straordinaria operazione culturale di Tommaso Mottola, artefice, insieme a Gørild Mauseth, di un ammaliante viaggio iniziatico nei luoghi di Tolstoj e di Anna, in bilico fra documentario, fiction, teatro e poesia. Possono bastare 85 minuti di film per restituire allo spettatore un autore immenso come Tolstoj, un personaggio femminile eterno come Anna Karenina, un’attrice intensa come la norvegese Gørild Mauseth, una ricerca interiore trasversale che appartiene a tutti i nomi schierati in campo e uno sguardo penetrante sui meravigliosi paesaggi europei e asiatici che vivono e respirano nella stessa magnetica atmosfera? L’impresa realizzata dall’ottimo Tommaso Mottola nel dirigere Karenina & Iriesce a soddisfare nel migliore dei modi tutte queste ambiziose esigenze e corrisponde ad un ideale artistico che scardina la gabbia delle consuete catalogazioni in generi per conciliare compiutamente teatro, letteratura, cinema e vita in un’unica travolgente narrazione.
Il film racconta della sfida affrontata dall’attrice, quella di recitare Anna Karenina in russo, lingua del tutto sconosciuta. La proposta le giunge a Venezia, dopo la lunga tournée norvegese che aveva avuto per oggetto lo stesso lavoro, e lei se ne innamora immediatamente in ciò sostenuta dal marito regista che vi legge un’ulteriore sfida in cui la posta in gioco è altissima sotto il profilo umano e professionale. Così Gørild Mauseth affronterà un viaggio di 11.000 km in treno con il marito e il figlio ancora piccolo, quasi dell’età del figlio di Anna Karenina, e il loro percorso come famiglia procederà di pari passo con quello artistico e con il tentativo di recupero memoriale di un tempo fermo e rimosso che si prospetta per l’attrice come riconquista di se stessa e redenzione delle proprie fratture interiori. Con la cuffia alle orecchie che le porge ossessivamente brani del lavoro da interpretare e l’inseparabile agendina su cui annotare la pronuncia di ogni singola parola e i tanti appunti cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, Gørild Mauseth litiga con una lingua sconosciuta nel tentativo di addomesticarla, vuole parlare la lingua di Anna, vuole conoscere la donna che è stata, non il personaggio, vuole comprendere le ragioni che hanno spinto Tolstoj a scegliere un personaggio con il quale condividerà in qualche modo la sorte (l’abbandono della famiglia e la morte in una stazione ferroviaria) e a scoprire cosa vi abbia nascosto.
“Se è vero che ci sono tante sentenze quante teste, dunque ci sono tante specie di amore quanti sono i cuori” recita Liam Neeson (presente nel film anche come appassionato co-produttore), star internazionale che si rivela presenza preziosa e discreta nel donare la propria intensa voce a Tolstoj attraverso alcuni passi del suo romanzo. Ed è così che va inteso l’amore di Anna, una specie di amore che non cerca condanne o assoluzioni, il suo personale modo di intendere un sentimento travolgente ed inopportuno nella società in cui si trova a vivere.
Il regista non cede alla tentazione del road movie e grazie al superbo montaggio di Michal Leszczylowski, che seleziona e accosta inquadrature preziose e utilizza gli stacchi netti in funzione fluidificante, riesce paradossalmente a rendere snella e agile una materia che si dipana lentamente come il processo creativo che ha portato il grande autore russo alla definizione di un’immagine muliebre che è rimasta nel cuore e nell’anima dei lettori come una sorella o un’amica di cui si riconosce l’errore ma che va compatita in quanto “ostaggio delle proprie emozioni”. Karenina & I non possiede neanche l’aridità di un certo modo di fare documentari e non ha nulla a che spartire con i pregevoli film sul teatro alla Kenneth Branagh o con quelli che riprendono integralmente per il grande schermo gli spettacoli del genere di Uomini e topi di Anna D. Shapiro e Skylight di Stephen Daldry.
Qui le sequenze teatrali sono saldamente intrecciate alla struttura del film e diventano esse stesse materia narrativa e puro godimento estetico. I tanti inserimenti in ordine sparso della fatidica “prima” illustrano i momenti topici della narrazione di Tolstoj rendendoli comprensibili anche a chi non conosce il romanzo e ciò che per sua natura avrebbe bisogno di tempi più distesi trova un assetto compatto e suggestivo che consente allo spettatore di essere catapultato nella magia della costruzione e della rappresentazione dell’evento. Ecco perché appare una scelta illuminata quella di portare il film inizialmente nei teatri con una tournée di tre date – sabato 9 marzo al Teatro Argentina di Roma, lunedì 11 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano e lunedì 18 marzo al Teatro Mercadante di Napoli – durante le quali saranno presenti sia l’attrice che il regista, e poi nelle sale cinematografiche.
Considerato il valore “sacrale” di immersione in un altro Io – paventato dall’amica e attrice Julia Aug che le prospetta un sofferto processo di identificazione: “quando indosserai il suo vestito ho paura che diventi la tua pelle”- e quello letterario di “inchiesta” – inteso come ricerca di sé, del personaggio e dell’autore – è logico che la peregrinazione in transiberiana fino a Vladivostok, meta finale in cui l’attende la grande prova, debba avere delle tappe necessarie come pellegrinaggi di fede. Bisogna credere fortemente perché avvengano le cose, e non è un caso se la battuta viene detta in presenza di un monaco ortodosso del monastero delle isole Solovki, luogo tristemente noto in cui Stalin fece erigere il primo gulag e luogo mistico in cui il segno della croce davanti ad un altare compiuto da Gørild rimanda a quello di Anna Karenina, il gesto abituale che “suscitò nella sua anima una serie di ricordi verginali e infantili”, quello che squarcia l’oscurità e illumina il passato, quello che la fa gettare tra il primo e il secondo vagone del treno in corsa.
L’attrice cerca Anna e il suo creatore in ogni luogo, mentre si interroga su chi siamo e da dove veniamo. Ulteriori tappe del pellegrinaggio sono l’elegante e signorile S. Pietroburgo che ha accolto Anna bambina, sposa e madre, Mosca e la casa di campagna che hanno visto i tormenti di Tolstoj, Novosibirsk che segna la metà del viaggio dell’attrice e il fiorire dei dubbi sulla riuscita dell’impresa, il lago Baykal in cui bagnarsi per diventare una vera donna russa. E in ogni nuovo luogo nuovi incontri per confrontarsi, per conoscere le opinioni della gente comune e quelle degli artisti, per immagazzinare impressioni momentanee e sollecitazioni durature. Le riprese indugiano sulla donna e sull’attrice, ne restituiscono lo sguardo assorto e ubriaco di bellezza con soggettive e panoramiche di squisita finezza e di grande pregio estetico, la bloccano in primi piani che scrutano il viso bellissimo per coglierne le tante sfumature espressive e in campi medi sul “moto fisico” di attraversamento di spazi sterminati che corrisponde al “movimento interiore”, alla ricerca di qualcosa di indefinibile che si farà chiaro soltanto alla fine dell’avventura.
E davvero ogni singola scena è talmente intrisa di rimandi visivi e di corrispondenze interiori e formali che bisognerebbe segnalarle una per una, dall’accostamento degli inquieti cavalli in movimento alle statue equestri e al temperamento del personaggio di Anna all’inquadratura attraverso il semicerchio del finestrino del treno sul basso caseggiato turchese della stazione di Novosibirsk e sulla statua bianca dell’atleta proteso nello sforzo, dal pedinamento attuato dall’occhio famelico della macchina da presa sul movimento continuo della donna nei preziosi abiti di scena – nero, bianco e rosso – tra incantati boschi di betulle, luccicanti distese di neve, anonime stazioni ferroviarie all’immagine anaforica della bambina vestita di rosso che si riverbera nell’attrice vestita dello stesso colore. “Tentare di arrivare a quella piccola bimba”, è proprio questa l’intenzione di Gørild, la bambina vestita di rosso simboleggia quell’infanzia lontana della quale entrambe le donne, l’attrice e la protagonista del romanzo, devono impossessarsi per comprendere se stesse e tutto quel capitolo di vita che ha bisogno di essere illuminato e portato allo scoperto.
“Quel che è insopportabile è non poter estirpare il passato dalle radici, ma se ne può disperdere la memoria” suggerisce ancora la voce di Liam Neeson. Sono le parole iniziali del film sigillate in perfetto contrappunto da quelle conclusive dell’attrice: “Tolstoj aveva creato Anna per disperdere il suo passato, io non lo farò”. La scelta dunque è quella del ritorno in Norvegia, il filo reciso da un brutto incidente durante l’adolescenza va riannodato, il destino che sembrava volerla separare definitivamente dalla propria terra ve la riporta attraverso tortuosi sentieri, il recupero delle proprie radici è necessario per ridefinire un’identità altrimenti minacciata. Infine la donna scia su un paesaggio ghiacciato che le appartiene – in un rapporto di circolarità visiva con la scena iniziale in cui la stessa donna camminava instabile sulla neve – il solco che si lascia alle spalle è un binario che non porta morte ma nuova vita, resurrezione. [11]
La forza femminile si coniuga spesso con la bizzarria, come avviene in Dumbo, ennesima variazione di Tim Burton sul tema della malinconia infantile e della diversità. La vita ci lascia e la vita arriva, ed è proprio così che inizia il film, con i due ragazzini (Milly e Joe Farrier) che hanno appena perso la mamma ed assistono al miracolo della nascita del cucciolo di elefante all’interno della grande comunità circense, abilmente ricostruita in ambientazioni semplici e sconfinate risalenti alla metà del ‘900.
Il treno a vapore lentamente riporta loro il padre rimasto mutilato in un’azione di guerra, ma non per questo meno pronto e deciso a riprendere la sua attività da dove l’aveva lasciata. I giovani protagonisti con grande affetto, volontà e umiltà allevano Dumbo dimostrando un’intensa capacità di comprendere le necessità di un cucciolo allontanato dalla mamma per gli squallidi interessi della Direzione, nella persona del Signor Medici. Il piccolo elefante famoso per le sue orecchie sovradimensionate, viene deriso fino a far percepire l’ingiustizia come un dolore fisico, poiché la mitezza creaturale disarma e disorienta.
Poi la scoperta! L’elefantino vola, vola con l’inconsapevolezza di saper volare, trovando la fiducia in se stesso grazie a una piccola piuma. Nel futuro del Circo Medici si delineano profondi cambiamenti a causa delle interessate attenzioni del popolare e odioso Manager Vandemere, Michael Keaton, che immediatamente si propone come socio al fine di trasformare il Circo in un immenso parco stanziale ricco di attrazioni: Dreamland. Dreamland appare subito la soluzione perfetta, una casa per tutti, la realizzazione di un sogno per i protagonisti; nessuno dubita della concretezza e dei vantaggi di questa metamorfosi, non può essere solo un Paese dei Balocchi. Dreamland è il luogo più affascinante dell’universo intero, è il viaggio esperienziale che stravolge l’esistenza, pieno di giostre, gabbie, giochi, ristoranti, un immenso Colosseo, e riesce a rappresentare anche il lato buio di ognuno di noi, simboleggiato dalla zona tetra dedicata agli animali mostruosi, tra i quali è stata rinchiusa la povera Mamma Jumbo.
Dreamland, così costruito dall’immaginazione scatenata e sempre sottilmente malinconica di Tim Burton, è esattamente l’ossimoro del circo, che per antonomasia affascina e spaventa proprio per il suo essere itinerante, per la vita nomade e sostanzialmente diversa dei pagliacci, degli acrobati, degli ammaestratori di fiere e elefanti, dei presentatori e delle ballerine.
Il declino dell’allucinazione è vicino. Si affermerà l’ideale di libertà e giustizia di Dumbo, che incarna il sogno dell’intera umanità. I suoi occhi risplendono della meraviglia tipica dei bambini e degli adulti più fortunati. Serve ascoltare il proprio cuore e non inseguire progetti ipertrofici, apparentemente eccellenti, per sentirsi insuperabili, esattamente come suggerisce Colette ad Holt nel film: “I tuoi figli non si aspettano che tu sia perfetto, ma che tu creda in loro!” E Holt crederà in loro, i ragazzi crederanno in Dumbo e nella certezza che lui alla fine potrà volare anche senza la piuma. Dumbo crederà in se stesso. Indubbiamente l’opera di Burton è ispirata al film di animazione originale, ma nello stesso tempo se ne distacca in maniera decisa mettendo in gioco un poker d’assi: gli esseri umani, i loro sentimenti, il loro saper distruggere e costruire, e un originalissimo lieto fine.
Un’ovazione doverosa per Eva Green, Miss Colette, che addensa in un unico sguardo la bellezza, la sensualità, l’onestà, la determinazione, la generosità di cui solo le donne sono capaci. [12]
Bizzarria che sconfina, nel caso di Les Estivants, in un tragico controvoglia cechoviano, isterico e surreale che ne fa la miglior commedia della stagione. Evocatrice di smanie goldoniane dove la fiera delle vanità delle giovani dame diventa la vanità in senso metaforico, l’ultimo film dell’attrice e regista Valeria Bruni Tedeschi mescola realtà e immaginazione in uno stile ironico-onirico, lieve e alienante, sempre teso tra ricordi familiari e atmosfere dense di sospesi dell’anima. Alla sua quarta regia con il film Les Estivants, la Bruni Tedeschi ripropone la vena autobiografico-fantastica in una raffinata e intima kermesse familiare dai risvolti proustiani. Con uno stile preciso, altalenante negli umori e percorso dai fremiti esistenziali di una famiglia-bene con tanto di megavilla sulla Costa Azzurra, in un’atmosfera dove la bellezza del panorama, della casa, confligge con segreti, bugie, rancori, rimpianti, lutti, abbandoni, aborti, tradimenti, in un alternarsi caustico e vibrante di tragicomiche confessioni e relazioni, Anna (la stessa inimitabile Bruni Tedeschi), mentre vive la dolorosa fine di un rapporto sentimentale tormentato, scrive il suo film, mescolando con ironia realtà e finzione, celebrando l’incomunicabilità delle relazioni in un cocktail dal sapore corposo e speziato, a tratti esplosivo.
Avvalendosi di un cast italo-francese di spicco, con una Golino sempre in quota, di un’affascinante ambientazione, di una sceneggiatura robusta nella sua voluta instabilità, dove su tutto domina la precarietà delle relazioni amorose, dei rapporti sociali, dove la morte del fratello si affaccia con malinconica prepotenza, il film, tra commedia e dramma, ci trasporta elegantemente in atmosfere profonde e rarefatte, come la simbolica nebbia che avvolge le scene conclusive, dove l’immaginario si mescola al reale, come nel cinema, come nella vita. Un cinema italiano (?) dal respiro internazionale. [13]
Delude invece Doubles vies, nuovo lavoro di Olivier Assayas. Dopo la conturbante intensità di Cloud of Sils Maria e Personal Shopper, il regista francese torna a battere strade più rassicuranti con un film che esplora i rapporti di coppia e che riflette sulla rivoluzione digitale. Fin dall’incipit infatti i personaggi discutono continuamente, prendendo posizioni opposte, su come l’era dell’informazione abbia cambiato tutti i processi socio-culturali, a partire dalla fruizione di un libro. C’è infatti chi sostiene in modo sconsolato che quest’ultimo sia destinato a scomparire in favore di una forma di comunicazione più spiccia e volgare, chi invece è molto ottimista e considera l’e-book l’avvenire che permetterà una più rapida democratizzazione della cultura.
Double vies risulta un film verboso e tipicamente “francese”, dove in quasi tutte le scene i personaggi, tipicamente bobo (bourgeois-bohème), in gruppo o in coppia, bevono vino e chiacchierano dei massimi sistemi. Un’opera gradevole che però non risulta all’altezza dei due precedenti film già citati, che nella carriera del regista francese hanno rappresentato una sorta di svolta esistenziale. Nel cast sono presenti nomi di calibro internazionale come Guillaume Canet e la sua attrice feticcio Juliette Binoche, che in modo molto ironico si autocita esplicitamente. [14]
Per rimanere nell’ambito dei maestri del cinema contemporaneo, occupa una posizione privilegiata Pedro Almodóvar, tornato a firmare un capolavoro. Un uomo immerso totalmente in piscina, il silenzio rarefatto dell’ambiente vuoto, il dettaglio di una lunga cicatrice sulla schiena che è già un anticipo di programma. Poi l’acqua terapeutica si trasforma nel liquido amniotico di un’infanzia felice trascorsa accanto ad una madre dall’energia contagiosa e in quella delle lenzuola strizzate e stese al sole sui cespugli. Presente e passato si tendono la mano, come in tutti i film introspettivi, quelli in cui si cercano le risposte dell’oggi nelle domande di ieri.
Antonio Banderas è Salvador Mallo, un regista osannato in crisi creativa, alias Pedro Almodóvar. E’ da questo spontaneo e voluto processo di identificazione che trae origine il percorso necessario ad una piena comprensione di Dolor y gloria, ultimo film, presentato al Festival di Cannes 2019, del prolifico autore cult spagnolo, che ha affidato a questa pellicola/confessione una delle sue prove più alte e misurate.
All’attore prediletto dal regista negli anni Ottanta (da Labirinto di passioni a Légami) poi passato alle grandi produzioni americane e internazionali (Philadelphia, D’amore e d’ombra, Intervista col vampiro, Desperado, Two Much, Evita, La maschera di Zorro, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ma l’elenco sarebbe davvero troppo lungo!) e poi tornato ad occupare un posto privilegiato nel cuore e nella filmografia di Almodóvar con La pelle che abito e Gli amanti passeggeri, ad Antonio Banderas, insomma, ancora splendido pur nell’incipiente senilità, è andato il Premio per la Migliore interpretazione maschile; il suo è un ruolo assorto e malinconico, tutto giocato sul piano delicatissimo delle sfumature (non sempre perfettamente restituite in fase di doppiaggio), sul lavoro effettuato sul corpo, da sempre privilegiato oggetto d’indagine per il regista che questa volta però sceglie un punto d’osservazione inconsueto. Non si tratta più dei corpi trasformati dei transessuali né di quelli ricostruiti (come in Tutto su mia madre o La pelle che abito, giusto per citare alcuni dei titoli più noti), l’attenzione adesso è rivolta al proprio corpo mal funzionante, un corpo rivelato attraverso raffiche di refertazioni mediche e immagini radiodiagnostiche che ne mostrano i meccanismi interni alterati in un turbinio quasi voluttuoso di malattie accuratamente elencate e descritte nella loro sintomatologia dolorosa.
Si fa presto a dire “dolore”, tutti lo conoscono e lo hanno provato almeno qualche volta, ma esiste una forma di dolore, quello cronico, che si installa dentro il corpo in permanenza come un parassita o un ospite sgradito, che rosica ogni pulsione vitalistica, che imprime una direzione obbligatoria alle scelte individuali, che strema nella consapevolezza dell’incompiuto, che terrorizza nella proiezione di se stessi in un futuro in cui non sarà più possibile continuare a svolgere le attività che si amano e che aiutano a sentirsi vivi, perché la partita si giocherà con la capacità di convivere con esso. Almodóvar lo descrive con la lucidità dettata dalla conoscenza diretta e ad esso attribuisce parte della sua crisi “creativa”, che è appunto la crisi di Salvador Mallo che, a sua volta, è il personaggio della rinascita di Banderas come attore finalmente restituito come merita ai grandi ruoli che segnano la carriera.
Il regista si lascia alle spalle le accattivanti trame scabrose e grottesche e le opulenze narrative che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione. Dolor y gloria è un film essenziale e, proprio per questo preciso intento di condensazione tematica e prosciugamento verbale, estremamente struggente, un sussurro straziante sui due aspetti solo apparentemente antitetici della vita di un artista: il dolore, fisico e interiore, e la gloria, disperatamente cercata anche quando si pensa di poterne fare a meno. Alla domanda su cosa possa fare un regista se non scrive e non gira Mallo risponde “vivere”, ma è una bugia clamorosa alla quale nessuno crede, né l’autore né gli spettatori, già il nostro Pirandello ci aveva confidato che “la vita o si scrive o si vive” e la sostanza delle cose non è affatto cambiata. La necessità di continuare a svolgere un lavoro molto fisico come quello del regista, in netto conflitto con le bizze di un corpo dolorante, non è messa in dubbio neanche quando la parola vorrebbe negarla per creare illusioni consolatorie.
E infatti sul dolore e su quanto esso possa dettare la sua legge a chi vi si trova sottomesso ruota il plot, apparentemente molto semplice e lineare. Sono semplici e magnetici persino i titoli d’apertura, incastonati dentro una cornice di disegni astratti computerizzati che fluiscono in cangianti e accesi cromatismi, ma si tratta di una semplicità che non coincide affatto con la povertà inventiva. Almodóvar non può fare a meno di sorprendere sempre e comunque anche quando l’impronta generale appare squisitamente posata ed equilibrata.
Sulla gloria ad Almodóvar non importa indugiare, essa è tanto ingombrante e comprimaria nel titolo quanto tacitamente assodata nel film, è una grossa fetta d’esistenza sulla quale è inutile soffermarsi se non nella riesumazione della fase iniziale di una carriera in continua ascesa che fornisce il pretesto alla narrazione: la proiezione di un vecchio film restaurato, Sabor, durante la quale dovrebbero presentarsi il regista e il protagonista Alberto Crespo (nell’efficace, brusca e sofferta interpretazione di Asier Etxeandìa) che, dai tempi delle riprese, non si sono più visti né parlati. Dopo una fase di paludoso stallo, il protagonista riemergerà alla vita grazie ad una serie di piccoli eventi che riannodano la corda tesa dei ricordi, tra i quali giganteggia l’anziana madre interpretata da Julieta Serrano, attrice icona di Almodóvar, che si porge con scanzonata e tenera serietà, aggrappata alla coroncina del Rosario e alle sue ataviche certezze, a dare ulteriore spessore al personaggio che, nei flashback, appartiene all’altra icona del regista spagnolo, Penélope Cruz. Il senso di colpa di Mallo per averla delusa nelle sue aspettative è sempre in agguato, specie per non aver potuto mantenere fede alla promessa di farla morire nel paese amato, e ad esso, forse, nella realtà si aggiunge quello dell’uomo Almodóvar per aver parlato di lei al grande pubblico pur sapendo che ciò non le sarebbe piaciuto.
La riconciliazione con Alberto, tramite il dono di un monologo teatrale autobiografico, La dipendenza, trascina nel territorio ancora immacolato dell’incanto del cinema avvertito come luogo di ogni possibilità e di ogni sogno, porta dentro la magia dei film proiettati sul muro bianco sotto il quale i ragazzini urinavano, con una manovra che ricorda l’analogo incanto del bambino Totò di Nuovo Cinema Paradiso, film di Giuseppe Tornatore con il quale Dolor y gloria condivide il tema del “ritorno” del regista ormai affermato – fisico o memoriale non importa – ai luoghi e alle passioni dell’infanzia. In quel monologo, che per Alberto Crespo diventa arma di riscatto professionale, è contenuta anche la doppia dipendenza, dalla scrittura e dalla droga, dei due giovani amanti che ne sono protagonisti, Salvador e Federico, quest’ultimo interpretato da un Leonardo Sbaraglia che dona il giusto mix di timidezza e determinazione al suo fragile personaggio. Ma all’antico amante Federico, ritrovato proprio grazie a quello spettacolo in cui si riconosce, Mallo nega, con la saggezza della maturità, un nostalgico rapporto sessuale. Intanto, complice l’affettuoso interesse dell’assistente Mercedes (Nora Navas nel ruolo indovinato e calzante della chioccia accudente), maturano in Mallo le decisioni che potrebbero rimettere ordine e speranza nella sua paralisi esistenziale: affidarsi ad un centro di terapia del dolore per liberarsi dall’eroina, utilizzata a scopi antalgici, cui l’aveva appena iniziato con un pizzico di astiosa e forse vendicativa noncuranza Alberto, e sottoporsi ad un intervento chirurgico per risolvere la disfagia, uno dei tanti supplizi quotidiani.
Il linguaggio cinematografico è terso e pulito senza alcuna prodigiosa ostentazione nei movimenti di macchina, le inquadrature sono prevalentemente statiche – alcune proprio teatrali – e girate in interni con uno sguardo intimo e privilegiato alla casa del protagonista, che è una ricostruzione di quella dell’autore, un piccolo museo consacrato alla bellezza da godere in solitudine.
La Madrid mostrata in brevi sequenze è quella delle strade dello spaccio, mentre la poesia e l’incanto negati alla capitale sono regalati a Paterna, luogo di un’infanzia poverissima e mitica in cui si schiudono la passione per lo studio, forzatamente condotto in collegio (inevitabile l’accostamento a La mala educaciòn e al carico di livore da sempre manifestato nei confronti di un cattolicesimo bigotto e limitante) e il sorgere del primo desiderio, legato ad Eduardo, il giovane imbianchino con una spiccata inclinazione per la pittura che gli schiude inconsapevolmente l’orizzonte dell’omosessualità.
Con una leggera forzatura potremmo dire che la stanchezza che pervade lo sguardo del protagonista diventa quasi una cifra stilistica e si posa su oggetti e persone, sui movimenti rallentati e ingoffiti dai malanni, sulle percezioni dilatate dall’eroina, sul presente che ha subìto una battuta d’arresto contrapposto all’esuberanza di un passato che emerge a ondate riportandolo all’infanzia illuminata dalla prorompente e mai scalfita vitalità della giovane madre, una Penélope Cruz in cui la bellezza è solo un dettaglio, e nemmeno il più significativo, tra le tante doti espressive.
Ma ecco che questi flashback, che si portano dentro la necessità della riappropriazione del passato per ottenere la pacificazione con il presente, diventano qualcos’altro, ecco che l’apparente semplicità narrativa cui si accennava, con un rapido guizzo, si sostanzia di un espediente tecnico, a sua volta semplice, che riporta al set, quello addomesticato e intimo della rinascita artistica e umana che prelude ad altra gloria, quello de El primero deseo, divenuto film nel film (El Deseo è guarda caso anche il nome della casa di produzione), e dell’infanzia magica in cui tutto era ancora da compiere e da immaginare.
Non ci dice nulla di nuovo Almodóvar nel rivelare che la sua salvezza è stata determinata dal cinema e che nel cinema – nel suo complesso processo di creazione fatto di scrittura e di riprese – ha trovato il suo dio e la sua forza. Si limita insomma a ribadire il concetto (sarà un caso che il suo protagonista si chiami Salvador?), quasi per ricordarlo a se stesso, perché in fondo questo è il destino di tutti gli artisti. Ecco perché questo film, probabilmente, non riceverà unanimi consensi, bisogna sentirlo sulla propria pelle per assorbirne ogni immagine e ogni parola, bisogna essere dolenti e creativi, anche senza essere stati baciati dalla perfida gloria.
Per chi ha amato l’Almodóvar degli eccessi e della provocazione, sarà comunque singolare e piacevole constatare come si possa sostanzialmente restare fedeli a se stessi pur nella declinazione di nuclei tematici e accenti stilistici pacati e introspettivi. Mutare pelle più volte pur restando riconoscibilissimi, anche questo, in fondo, fa parte della grandezza di un autore. [15]
Alle regie abbacinanti di Lanthimos e Almodóvar si affianca quella di Pawel Pawlikowski, giustamente premiato per Cold War al Festival di Cannes 2018.
Loin de toi,
dans mes draps,
je ne rêve plus j’oublie.
Je me face pas à pas
comme une ombre de nuit.
John Mitko
L’amore fiorisce in un gelido inverno del 1949. Nella Polonia devastata dalla guerra, Wiktor Warski, musicista e compositore, Lech Kaczmarek, amministratore e l’etno-antropologa Irena Bielecka percorrono il paese con un vecchio furgone: luoghi sperduti, distruzione, tante sigarette e molta povertà. Il loro progetto è mettere su una compagnia folkloristica. Dopo audizioni e registrazioni che hanno un carattere quasi etnografico, di recupero identitario delle danze e dei canti della tradizione rurale polacca – “la musica del dolore, dell’ingiustizia, dell’umiliazione, ma anche della gioia seppur tra le lacrime” – il loro progetto prende finalmente corpo. Ed è durante un’audizione che Wiktor scopre l’affascinante e sfacciata Zula. Di estrazione proletaria, è uno straordinario talento naturale, segnato però da una esistenza durissima e infelice: il tentativo di stupro da parte del padre, la sua reazione, la condanna per tentato omicidio che ne consegue. Zula è in libertà vigilata. Ma Viktor (Tomasz Kot), il borghese appassionato di jazz, che è stato nell’”altra” Europa è ormai perdutamente innamorato.
In un bianco e nero lancinante in 4:3, Pawel Pawlikowski, “scrittore di cinema”, ci restituisce con “Cold war” un film da nouvelle vague – e i debiti nei confronti, per esempio, di Truffaut, sono più che espliciti – girato con una eleganza e una nitidezza quasi neorealistica, confortata dalla splendida fotografia di Lukasz Zal, una storia privatissima che scava nel cuore del suo stesso essere e ripercorre la storia dei suoi genitori, il rapporto di amore-odio del protagonista (e quindi dello stesso regista) con la sua terra d’origine. Requisita dunque una dimora signorile per farne la propria sede, la compagnia “Mazurek” dei “musicanti del popolo” cresce ma il tentativo della neo-nomenclatura filosovietica di piegarla alle pretese propagandistiche del regime – “magari aggiungiamo al repertorio qualcosa sul leader del proletariato mondiale…” – incombe attraverso la figura dell’impresario Kaczmarek che, in questo modo schiude le porte ad una tournée internazionale. E’ forse il momento migliore del film: musiche, scenografie, danze corali quasi in forma di documentario aprono uno squarcio sulla guerra fredda, sulla tensione tra Est e Ovest: una guerra combattuta sul fronte culturale e ideologico. Piegata dunque quella fucina di ricerca ad uno strumento di promozione politica, Bielecka abbandona il gruppo nel momento in cui Viktor e Zula si rivelano forsennatamente. E’ un incontro sotteso, quasi pudico, ma sotto la cui superficie arde una passione sterminata, un assoluto coinvolgimento. Zula gli confessa pure di essere una specie di “spia” per conto dell’impresario: bisogna mantenere quella verginità anticapitalistica che lo status di artista che strizza l’occhio alla musica della degenerazione imperialista, non può certo garantire. E accanto a quello iconografico e silenzioso dell’amore – le fughe nei campi, gli incontri rubati, il desiderio e l’attesa, tutti incentrati sui primissimi piani di due protagonisti, “Cold war” declina anche un lessico dimenticato – “campo imperialista; forze del Bene e del Male; revanscisti” – alle massime temperature ideologiche. Ma le intenzioni di Pawlikowski non sono certo quelle di esplorare la temperie di quei decenni (se non in modo indiretto) quanto piuttosto di scandagliare l’epos intimo di Viktor e Zula. E’ il 1952 quando, in tournée a Berlino, i due amanti organizzano la fuga all’Ovest: ma lei lo abbandona e Wiktor varca la frontiera da solo. Si rivedranno solo due ani dopo, brevemente, a Parigi dove Wiktor si guadagna da vivere tra locali jazz (arrangia comunque le canzoni della sua patria perduta) e musica per i film (la citazione di Pawlikowski è per “I vampiri” di Freda, 1959). Poi in Jugoslavia pochi anni dopo: Zula si è sposata (per ottenere la cittadinanza italiana); tra fughe, canzoni struggenti, duetti – in “Dwa Serduszka” (“Due occhi”) Joanna Kulig offre una voce dolorosamente partecipe al piano di Wiktor – assoli vertiginosi, lacerti memoriali ed ellissi, si arriva al 1959 quando Wiktor, considerato un traditore, è rimpatriato da Spalato a forza in Polonia e dopo essere stato mutilato ad una mano viene condannato a 15 anni di carcere duro. Sarà Zula, che nel frattempo intesse una relazione con Kaczmarek ormai un alto papavero del partito, a tirarlo fuori. La sequenza che la inquadra devastata dall’alcol mentre si esibisce ad un improbabile “Canzone per l’estate” polacca – e con un “Bajo Bongo” assolutamente imprevisto – ce la restituisce precipitata nell’abisso dell’assenza di Wiktor. Adesso sarà finalmente e per sempre solo sua: lontano da lui è impossibile vivere. Il matrimonio frugale che celebrano tra le macerie di una chiesa prelude forse ad una definitiva riconciliazione, ad una sorta di metaforica resurrezione della stessa Polonia, confortate dai due grandi occhi divini (gli stessi inquadrati all’inizio del film) che da un affresco quasi in polvere li osservano eterni. In questo confine incerto del sentimento, nella “terra di nessuno” che atterrisce l’amore e nel contempo della forza che lo scatena e lo conserva sta la forza della seconda parte di “Cold war” e la capacità di Pawlikowski di intessere una narrazione incentrata soprattutto sulla musica e sull’amore: “Zula e Wiktor – ha dichiarato il regista – hanno altri amanti, rapporti, mariti e mogli, ma col tempo si rendono conto che con nessun altro si sentono tanto uniti e, a dispetto di tutti i cambiamenti storici e gli spostamenti geografici, si conoscono bene come nessun altro. Allo stesso tempo, paradossalmente, sono le uniche persone con cui non riescono a stare”. Già: “l’amore è amore. Punto e basta”. [16]
Altri due registi si sono dimostrati grandi quanto schivi, realizzando due opere pressoché perfette, dotate di una voce personalissima e amabilmente bitonale, dove l’esposizione di drammi epocali e individuali avviene con grazia mozartiana: Le Invisibili e La caduta dell’impero americano. Immaginate di dover lasciare alle sei del mattino, ogni giorno, il centro notturno che vi ospita, spesso con malagrazia e attitudine concentrazionaria, e attraversare tutta la città per arrivare fino ai cancelli dei locali di assistenza diurna femminile. Con ogni clima, quando i cristalli di gelo vi entrano nel sangue e nei polmoni e quando la canicola vi schiaccia sul marciapiede affocato spegnendovi il respiro. Non avete i soldi per i mezzi pubblici, perciò siete costrette a coprire l’intera distanza a piedi portandovi appresso le vostre povere cose, stipate alla rinfusa in borsoni e zaini pesantissimi. Ogni giorno, avanti e indietro, sotto la pioggia o le sferzate del vento. In attesa davanti al cancello i borbottii di impazienza, di stanchezza, si fanno esasperazione collettiva, rabbia frantumata e dissonante, brama frustrata di un posto caldo e pulito, di un buono mensa, di uno scontrino di accesso alle docce consegnato insieme a un po’ di bagnoschiuma versato su un quadratino di plastica.
L’Envol però è un centro diurno particolare, atipico, nel quale le donne tornano volentieri, perché non trovano soltanto il conforto minimo della sopravvivenza, il benessere dato dall’acqua che scivolando sulla pelle si porta via per un breve istante anche l’amarezza, bensì due assistenti sociali e due volontarie (Audrey, Manu, Angélique ed Hélène) che respingono il gelo burocratico di circolari farraginose, e di norme caratterizzate soltanto dalla necessità di contenere al massimo i costi e presentare risultati statisticamente tangibili. Con determinazione a tratti quasi disperata, intendono restituire visibilità e identità al gruppo di homeless che si è affidato alla loro guida e alle loro cure. E hanno solo tre mesi di tempo, prima che la chiusura stabilita dal Comune diventi effettiva.
Ispirandosi al documentario di Claire Lajeunie Les Femmes Invisibles, dedicato alle donne senza fissa dimora di Parigi, il giovane regista Louis-Julien Petit segue con uno sguardo concentrato e lieve le storie incrociate delle molte protagoniste, in cui ogni dettaglio si carica di significati ulteriori. Muovendosi fra il Ken Loach di I, Daniel Blake e la migliore ‘Nuovelle Vague’ di Truffaut e Agnès Varda, ci mostra le cose come stanno, con l’asciuttezza di Beckett e Buster Keaton, senza sottolineare troppo l’indegnità di un mondo sprofondato nell’autismo. Brevi sequenze senza parole si soffermano sull’installazione di punte metalliche sulle soglie di marmo delle vetrine griffate, o di braccioli al centro delle panchine; tutti espedienti finalizzati a impedire il riposo in ‘luoghi pubblici o privati’ dei senza tetto. A chi rifiuta di essere rinchiuso nei dormitori anonimi, così simili alle prigioni, non viene data neppure la possibilità di montare una piccola tenda in aree inutilizzate per ricreare un simulacro di abitazione. Arrivano subito arcigne delegate del Comune e zelanti forze dell’ordine in tenuta antisommossa e ruspe al seguito. Chi si oppone, rivendicando il diritto alla propria ‘casetta’, viene portato via di peso.
Come in un girone infernale (ma qual è la colpa?), queste povere donne camminano senza sosta, nonostante età e malattie, percorrendo distanze inimmaginabili. Avanzano caracollando, sfiancate dal peso delle borse, maleodoranti – dromedari vecchi e stremati nel deserto emotivo della società -.
Eppure conservano il dono dell’ironia, si identificano con icone pop assumendo i nomi di Lady D, Catherine Deneuve, Edith Piaf ecc. per stringersi addosso qualche lembo di identità, sia pure fittizia, legata all’immaginario e al desiderio. Le quattro assistenti le inducono a ricordare i loro veri nomi (perché il nome è tutto, nominare le cose significa farle esistere) e le vite ‘di prima’ (prima di cosa? chiede una delle donne, prima della strada le viene risposto). Lentamente riprendono forma le ragioniere, le intellettuali, le dattilografe, la nebbia si dirada, e assume un’evidenza epica la figura di Chantal, laconica, onesta e sensibile. Nel carcere di Loos ha seguito ogni possibile corso formativo, imparando a riparare qualsiasi cosa, dai tostapane ai motorini. Ai potenziali datori di lavoro racconta in modo neutro e minuzioso l’uccisione del marito, un aguzzino implacabile, senza omettere il particolare del sangue che colava dall’ascella. Sarà proprio lei a trovare per prima un impiego e incamminarsi verso la normalità.
Anche le altre rimetteranno insieme il mosaico del proprio Io, trascinate dalla passione di Audry & Co., che, indossando gli stessi pullover del liceo, ormai sformati e dalle maniche troppo lunghe, sovvertono le regole, imbrogliano, mentono, ignorano moniti e consigli alla prudenza per dare loro una seconda possibilità. Affinché i volti non siano più delle ombre indistinte dietro un vetro sabbiato con motivi esagonali, le assistenti fanno risorgere la bellezza originaria nascosta in ciascuna delle donne con creme, rossetto, smalto ed eyeliner, e organizzano un ballo dove possano riconoscersi le une nello sguardo delle altre. Si procurano false buste paga e lettere di raccomandazione per poterle iscrivere alle agenzie interinali. Arrivano a sottoporsi a delle sedute terapeutiche con Catherine, ex psicoanalista inerme, la più provata e indifesa, per sottrarla alla frequente narcolessia da depressione, forse un rifugio dove nascondersi dal male di vivere.
A causa di una leggerezza di Julie, ragazza selvatica che va e viene dal centro, discendente in linea retta della Mona Bergeron di Sans toit ni loi, il progetto non finirà bene. O invece sì, visto che Chantal, Catherine, Lady D, l’affascinante Françoise e le altre se ne andranno dall’Envol sfilando come top model in mezzo a burocrati e poliziotti, piene di fierezza e sarcasmo. [17]
Denys Arcand sceglie la Sinfonia n. 25 in Do maggiore di Joseph Haydn, forse la più dinamica e ironica, dal tema lirico e cantabile, per rappresentare il sogno infranto dell’Occidente, e di ogni altra zona del pianeta. Una delle più raffinate composizioni musicali europee, espressione della necessità profondamente umana di una costante trasfigurazione e insieme rarefazione del dato reale, immanente, come unica possibilità di salvezza, accompagna i destini incrociati dei molti protagonisti de La caduta dell’impero americano. Bisogna praticare l’amor fati, afferma il giovane Pierre-Paul citando la concezione stoica del destino, accettare l’arbitrarietà, lieve o drammatica, degli avvenimenti che deviano di continuo il corso dell’esistenza mantenendo la disponibilità a sperimentare le combinazioni, anche bizzarre e pericolose, del Caso.
Pierre, dopo il dottorato in filosofia, si è ritrovato a lavorare come fattorino in una società di consegne a domicilio. Sale e scende innumerevoli volte dal furgone durante la giornata, e avverte i primi sintomi delle patologie articolari che con l’avanzare dell’età potrebbero rendere necessarie le stampelle. Eppure non concede terreno alla potenziale banalità della vita, indaga sistemi sociali e stati d’animo con sottili strumenti teoretici. E’ un uomo ‘sulla soglia’; fisicamente a disagio nello spazio circostante si sente affine ai molti senza tetto, soprattutto nativi e inuit, che si disfano nei panni maceri sui marciapiedi della civile Montreal. Frequenta come volontario un centro di assistenza, serve i pasti alla mensa, fa amicizia con un homeless timido e gentile che gli confida di non avere alcun interesse per il denaro, ma di sognare una stanza, un letto e una poltrona per vedere lo sport in tv. Un posto caldo, un rifugio. Quasi sottovoce racconta come ci si sente soli e spaventati in una notte di novembre, con la pioggia che inzuppa i vestiti e fa scendere i brividi fin nelle ossa.
Mentre la luce del primo autunno bagna di trasparenze azzurrine ogni elemento del paesaggio – le strade centrali, le aree in cui vengono radunate le carcasse sfigurate delle vecchie auto, i parchi dalla pigmentazione giallo-rossastra, le case hi-tech, le linee invetriate dei grattacieli che ne moltiplicano i riflessi – Pierre, durante una consegna, si trova coinvolto nella rapina cruenta ai danni di un supermarket periferico. Più precisamente l’oggetto dell’assalto è la sproporzionata cassaforte annidata in un locale annesso. In seguito capiremo che la mole impressionante di denaro custodito dal proprietario dell’esercizio commerciale appartiene in realtà a una spietata banda di malavitosi irlandesi, la ‘gang dell’ovest’, e che il colpo finito male può essere annoverato nella casistica cinematografica dell’inganno multiplo, delle strategie da tunnel degli specchi, sui quali aleggiano visibili le ombre di Mamet e dei Coen.
Nella concitazione della sparatoria il giovane fattorino/filosofo rimane invisibile a tutti, persino all’unico superstite ferito che si dilegua zoppicando. Restano sul terreno due borsoni neri pieni di dollari. L’esitazione sosta negli occhi di Pierre solo pochi secondi, un ragionamento ancora informe si è fatto strada e il ragazzo nasconde la refurtiva dentro il furgone. Il disegno che si va componendo nella mente di Pierre (un indimenticabile Alexandre Landry) ha bisogno del supporto di una figura di esperienza nel settore della finanza, e il ragazzo sceglie e contatta Sylvain Bigras, appena uscito dal carcere. Dopo averlo giudicato un pazzo o un millantatore, l’uomo ne diventa una sorta di nume tutelare, brusco e a momenti sarcastico ma come meravigliato dalla luce febbrile che Pierre irradia, idiota dostoevskijano di indole pragmatica.
Un pragmatismo strettamente connesso al sogno e alla ricerca esperienziale. Infatti, per prima cosa Pierre-Paul si concede un’immersione in un’esperienza erotica che gli permetta l’accesso a zone interiori fino a quel momento precluse. Per questo rito iniziatico sceglie Aspasie, conquistato dai versi misteriosi e tormentati di Racine citati nel sito della ragazza e dalla cultura che rivela aver scelto come pseudonimo il nome di un personaggio di Mitridate. La escort dei quartieri alti risale senza fretta la scala esterna che conduce all’appartamento del giovane. Avanza in pieno sole, un gradino dopo l’altro, con calma, ed è come se emergesse da un’acqua di pulviscolo luminoso, essa stessa splendore del giorno, biondazzurra, lieve, mentre dischiude un sorriso di incantevole semplicità. E’ un’apparizione, una divinità, una maga che trasforma l’atto d’amore in avventura della mente e dei sensi, appagamento panico, espressione artistica, liberazione del demone meridiano, contatto ustorio con l’Angelo (caduto o meno).
In questa fase, prima che l’affaire legato al denaro si riprenda la scena, affiorano i sortilegi del miglior Woody Allen, quello che per lo spazio di un istante desidera credere alle illusioni, in Hannah and Her Sisters o You Will Meet a Tall Dark Stranger o ancora Wonder Wheel.
Il passo ulteriore di Arcand, e la sua diversità, consiste nel confidare davvero in un atto eversivo che, utilizzando gli stessi strumenti dell’economia immateriale, della speculazione finanziaria colpevole dell’impoverimento di masse sterminate di persone, arrivi a incrinare un sistema perverso. Il regista formula persino l’ipotesi avvincente che quest’azione solo apparentemente delittuosa possa cambiare la natura dei singoli, o meglio accendere l’originario riflesso cangiante di ciascuno, andato negli anni a nascondersi chissà dove.
Trascinati dall’aggraziata foga utopistica di Pierre, Sylvain, Aspasie/Camille e persino l’ex fidanzata Linda (cassiera di banca malinconica e madre single) tessono un piano in apparenza folle, costantemente pedinati da due poliziotti le cui vite intravediamo grazie a veloci allusioni in progress (lei detective saffica segnata da un cinismo solo apparente, lui ex studente di matematica costretto a lasciare la facoltà ed entrare in Accademia a causa del dissesto finanziario del padre, rovinato dagli investimenti nella bolla tecnologica), e intenti a seppellire e disseppellire i soldi in un cimitero abbandonato, come in The Trouble with Harry di Hitchcock, mentre cercano il broker ideale per far espatriare l’intera somma.
Camille riuscirà a ottenere un appuntamento con il consulente finanziario per miliardari Wilbrod Taschereau, suo amante di un tempo, e a convincerlo ad innescare il meccanismo assai complicato di trasferimento del denaro. I compiaciuti e sinistri monologhi esplicativi di Taschereau, per mezzo dei quali veniamo a conoscenza degli stratagemmi usati per occultare immensi capitali sono i passaggi del film in cui si viene colti da una vertigine apocalittica che pensavamo potesse scatenare solo Dürrenmatt. Per aggirare le norme Ocse, i dollari smaterializzati viaggiano rapidamente in rete da un angolo all’altro del mondo, passando da un broker all’altro, tutti uguali, tutti controllati e asettici, molto professionali e muniti di un sorriso inquietante da Stregatto. Dopo una sosta a Londra, giungono alla destinazione finale in Svizzera, dove viene creata in pochi minuti una Onlus fittizia, con tanto di consiglio di amministrazione; in questo modo, protetti dalle finalità benefiche della medesima (nessuno indaga sui bambini malati), i veri proprietari sono liberi di attingere ai fondi in qualunque momento e nella misura desiderata per mezzo di note spese, rimborsi ecc. ecc.
Solo che stavolta a disporre del denaro occultato sono dei veri benefattori, persone che respingono l’idea stessa di Stato e di Governo, perché guardandosi intorno vedono solo dittatori africani che distolgono intere voci di bilancio per investirle nei propri conti all’estero, capitalisti cinesi che come termiti divorano le materie prime dei paesi poveri (poveri solo perché sfruttati), ministri occidentali, in questo caso canadesi, dediti alla corruzione sfrenata, grandi e piccoli professionisti ossessionati dal desiderio di arricchirsi sempre di più non pagando le tasse.
Con raccordi di montaggio perfetti, dal passo musicale, questa cruda ed esilarante fiaba dell’utopia possibile attira verso una dimensione meno aspra, di riconciliazione con se stessi, persino Carla e Pete, i due poliziotti pieni di amarezza, convertendoli alla solidarietà. [18]
Dei rapporti alterati fra Stato e Cittadini e degli orrori che non di rado ne conseguono (per una sorta di perverso ‘gomitolo di concause’ gaddico), trattano con sdegno e composta pietas due film di alto profilo: Peterloo di Mike Leigh, in primo luogo, e Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.
Le donne indossano il vestito bianco della domenica (e delle Female Reforme Society) e hanno fiori nei capelli per andare incontro al massacro. Portano con loro i bambini. Gli uomini le seguono sorridendo. Intere famigliole cominciano ad arrivare dai “rotten boroughs”, piccoli villaggi rurali e dai centri più lontani. Tutti – sessantamila persone – sfuggiti per un giorno al lavoro massacrante dei filatoi di tutto il Lancashire. Sventolano bandiere e stendardi: a St. Peter’s Fields, Manchester, è una giornata luminosa, quasi felice: è il 16 agosto 1819. Ma sarà un mattino di violenza e di sangue.
Mike Leigh con Peterloo racconta uno degli eventi più tragici di tutta la storia inglese: l’eccidio perpetrato nei confronti di pacifici manifestanti da esercito e polizia. Alcuni anni fa un sondaggio del quotidiano “The Guardian”, pose il massacro di Peterloo tra i maggiori eventi della storia radicale britannica secondo solo ai Dibattiti di Putney (durante la Rivoluzione). Ma il film di Leigh dedica solo una minima parte, nel finale del film, alla narrazione della strage. Le sue intenzioni sono altre: soffermarsi a chiarire ed analizzare i fatti che portano a quel giorno funesto. E lo fa con l’attenzione, con la dedizione di chi sceglie il rigore storico rispetto alla facile estetica della violenza. Non vuole trasformare quell’evento cruciale in un kolossal hollywoodiano e ipertecnologico, con l’uso spericolato delle inquadrature e delle scene di massa: sceglie di raccontarci quel giorno “dal basso”: la miseria delle classi subalterne, le affollate assemblee popolari, la spocchia dei borghesi e dei proprietari, l’arroganza della Giustizia e del Governo.
In questa scelta di campo consiste la grandezza di Mike Leigh che, memore della straordinaria lezione registica di “Turner” si sofferma su descrizioni minuziose degli ambienti – le fabbriche, le povere case degli operai, le stanze fredde delle riunioni politiche – e di tutti i protagonisti, anche attraverso accurate indicazioni agli attori e alle comparse. E lo fa riportando la narrazione al 1815. La sequenza iniziale del film vale infatti una dichiarazione di poetica: è il mesto ritorno a casa dalla follia della guerra e di uno dei suoi giorni più terribili: Waterloo. Joseph, un trombettiere, è sconvolto, pur sopravvissuto, sembra proprio uno “scemo di guerra”, terrorizzato dallo “shell shock”, dalla morte, dalla carneficina. Mentre Joseph si avvia verso casa, l’altra faccia della medaglia, quella istituzionale del Parlamento celebra l’eroe Wellington – su richiesta del Primo Ministro – con un premio sbalorditivo in sterline. Quattro anni dopo la vittoria, però le tensioni sociali in Inghilterra sono altissime: una terribile crisi agricola e il conseguente aumento dei prezzi gettano alla fame la maggior parte della popolazione, e della “working class” specialmente, vessata pure dalle famigerate Corn Law, le leggi che vietano l’importazione di derrate alimentari: grano e mais soprattutto. Quando Joseph arriva finalmente nella sua Manchester, nulla è cambiato: industrie tessili ovunque, ovunque sfruttamento e miseria, una giustizia inflessibile esercitata con disprezzo nei confronti dei più deboli.
E’ in questo clima che matura la richiesta per una riforma costituzionale per una presenza nella House of Commons “che possa esprimere – dice il Riformista John Saxton, giornalista del “Manchester Observer” – noi stessi in tutte le questioni locali e di interesse nazionale”. Nel 1819, nel Lancashire rappresentato da due membri del Parlamento il voto era appannaggio esclusivo dei maschi proprietari di terreni con un valore molto alto: in pratica solo il 2% della popolazione ne aveva diritto. Ma Saxton non è solo in questa battaglia civile: accanto a lui la moglie, presidente della Femal Reforme Society, altri colleghi e tutto il nutrito gruppo dei Radicali e dei Riformisti guidati da Henry Hunt, un proprietario terriero, pioniere del radicalismo della classe operaia, che avrebbe esercitato la sua influenza sul successivo movimento cartista. Nel frattempo, tra spie e delatori, lo stesso Ministero degli Interni intercetta la posta dei riformisti e si prepara alla repressione inviando nel Nothern District il generale Sir George Byng, veterano delle campagne di Wellington e, sollecitato dalle locali forze dell’ordine, dai giudici e dai proprietari, gli Ussari, un Reggimento Reale di Fanteria e la Cavalleria volontaria di Manchester & Salford.
La situazione precipita: quando il Principe Reggente, figlio di Re Giorgio III, viene contestato in pubblico, per paura di ulteriori disordini viene addirittura sospeso l’habeas corpus. A questo punto i riformisti di Manchester invitano Henry Hunt al grande raduno che stanno organizzando a St. Peter’s Fields: ma mentre Hunt parla arriva la cavalleria con le spade sguainate, poi è la volta dell’attacco degli Ussari. E’ un massacro. Joseph il trombettiere è colpito a morte. Il popolo che era riuscito a sconfiggere le armate di Napoleone a Waterloo viene sacrificato e paga con la miseria e la morte, la paura del “colera strisciante della rivoluzione”: il funerale solitario di Joseph chiude in un cerchio di dolore tutto il film. “Quello che vediamo in Peterloo – ha dichiarato Leigh – sono le forze della repressione messe a nudo.” “Peterloo” è un’opera corale, un affresco intenso e accorato che non solo sottolinea il ruolo essenziale della stampa dell’epoca – il Leeds Mercury, il Liverpool Mercury, il Times – (fu James Wroe, redattore del Manchester Observer a coniare il termine “Peterloo” con l’evidente riferimento alla celebre battaglia) ma che permette di gettare anche uno sguardo sul presente: “Ciò che non potevamo sapere nel 2014, quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto – ha dichiarato il regista – è che ci saremmo ritrovati quotidianamente a pensare che la storia che stavamo raccontando aveva una grande attinenza con il presente. Non sapevamo ancora di trovarci in un Paese che stava per sprofondarsi con le sue stesse mani nel disastro più assurdo che si possa immaginare: la Brexit.” [19]
Alla fine, la colpa è sempre dei morti. Di chi finisce, per un motivo qualsiasi, negli ingranaggi dello Stato e ne viene stritolato. Può accadere a chiunque di noi, in ogni momento, di non corrispondere più all’immagine del cittadino modello: un ultracorpo che lavora, si sposa, si riproduce, consuma, guarda la tv, ripete luoghi comuni da dizionario flaubertiano, è convinto (o si convince) che gli stivali sono neri e lo zucchero è bianco, vota in base agli slogan di turno e non al libero pensiero, entra nell’onda (come viene detto in ‘Troppa grazia’ di Zanasi) dell’eterno fascismo italiano, che sa rivestirsi di colori sempre diversi, mimetico come un camaleonte (dostoevskijano), fa finta di non vedere gli anziani che raccolgono la verdura scartata nei mercati rionali o il vicino di casa che, a poco a poco, si consuma nell’indigenza. Tutto questo preferibilmente in silenzio.
Perché la prima cosa che ti viene detta è stai zitto. Te lo dicono nell’esercito, non rispondere ai superiori, stai zitto! Te lo dicono in ospedale, i medici sanno quello che dicono, non li contesti. Te lo dice il capetto di turno, per umiliarti e toglierti ogni barlume di identità, stai zitto/a, non rispondere! Te lo dicono in alcune case di riposo (o di tortura), stai zitto/a, ormai non sei più niente, non conti più niente.
A Stefano Cucchi l’hanno detto probabilmente i carabinieri dopo l’arresto, in caserma, mentre gli sfondavano la schiena di calci. Come ha spiegato in modo esemplare il prof. Luigi Manconi durante una proiezione di Sulla mia pelle, il corpo del cittadino dovrebbe essere sacro per lo Stato, il dovere di chi rappresenta questa entità astratta e spesso crudele è di proteggere il corpo umano, perché la dignità individuale risiede prima di tutto nel corpo, preservarlo da qualunque insidia, addirittura risanarlo, a seconda dell’ambito in cui si agisce.
Ma la forma mentis in Italia (e in moltissimi altre Nazioni) è diversa. Il cittadino che si allontana, sia pure di poco dalla norma, assume il ruolo del nemico da abbattere, la creatura xena cui ‘spezzare le reni’, l’uomo o la donna superflui da eliminare con disprezzo.
Così Riccardo Magherini è stato percosso e soffocato in una via centrale di Firenze, mentre gridava aiuto, aiutatemi devastato da un attacco di panico. Una ‘morte in diretta’, ripresa dalle telecamere e dai telefonini dei testimoni. Eppure, nonostante due striminzite sentenze di colpevolezza, la Corte di Cassazione ha deciso di assolvere gli imputati perché il fatto non costituisce reato. Ossia, un uomo in preda all’angoscia è stato ucciso però questo non rappresenta un crimine.
Così Francesco Mastrogiovanni, vicenda terribile ricordata da Manconi, caduto in un temporaneo stato confusionale viene sottoposto al TSO e crocifisso per 87 ore a un letto di contenzione nella totale indifferenza e incuria del personale che lo avrebbe dovuto assistere. Legato fino alla morte, anzi oltre la morte, visto che i ‘sanitari’ si sono accorti del decesso con qualche ora di ritardo. E, proprio a questo riguardo, il prof. Manconi ha espresso inquietudine e sdegno verso i rappresentanti dello stato che si fanno esecutori e torturatori, una forma di connivenza inaccettabile, soprattutto perché si rinuncia ad alcune fra le principali qualità che ci danno connotazione umana: l’empatia e la responsabilità.
Il martirio di Stefano assume tinte altrettanto cupe. Con due fratture vertebrali e dolori lancinanti viene ricoverato nella struttura ‘protetta’ (?) del ‘Sandro Pertini’, dove le uniche cure somministrategli sono dei bruschi moniti guardi che è grave, ha due vertebre fratturate, deve muoversi il meno possibile. Dove i genitori, pieni di apprensione, vengono respinti da un citofono che, con voce ogni volta diversa, enumera regole contraddittorie e vessatorie riguardanti le visite dei parenti. Dove, infine, viene lasciato morire di fame e di sete. L’ultima notte chiede a un infermiere un po’ di cioccolata, l’illusione di un po’ di conforto, di infanzia, ma naturalmente la struttura non dispone di cioccolata.
Chissà quali sono stati gli ultimi pensieri di Stefano (rappresentato, vissuto nella sua stessa carne da un Alessandro Borghi impressionante), le ultime sensazioni, mentre i reni cessavano di funzionare e il cuore rallentava, mentre probabilmente lo straziava la certezza che la sua famiglia lo avesse abbandonato. [20]
Anche Nadine Labaki nel suo lungometraggio più recente adotta toni cupamente drammatici. Premio della Giuria al Festival di Cannes 2018, Cafarnao è uno di quei film necessari, che colpiscono e poi rimangono addosso. Rispetto ai precedenti Caramel e E ora dove andiamo, più sensuali ed ironici, Cafarnao è un’opera dalla potente espressività, a tratti disturbante.
Zain è un ragazzino di 12 anni (ne dimostra 9) che vive in un quartiere povero di Beirut. La sua numerosa famiglia è alloggiata in una minuscola casa fatiscente. Zain, che contribuisce al mantenimento della famiglia lavorando duramente, è molto legato alle sorelline e in particolar modo a Sahar, che a soli 11 anni è promessa sposa ad un uomo molto più grande di lei, proprietario di un negozio. Zain, più saggio dei genitori, si oppone a questo matrimonio e fa di tutto per salvare la sorella. Quando si rende conto di avere fallito scapperà di casa.
Prima del drammatico plot, ciò che colpisce sono le immagini cristalline di una Beirut polverosa e decadente. I tetti delle baraccopoli, i muri scrostati della casa di Zain e le carrellate sulle celle sovraffollate da centinaia di uomini, donne e perfino bambini, ci raccontano più di quanto non faccia la storia. Un microcosmo crudele dove non esiste pietà per nessuno, nemmeno per una bambina di 11 anni. Dove colei che dovrebbe proteggerla (la madre) è la prima a venderla. Ma forse in cuor suo è convinta di salvarla dalla miseria, anche perché lei stessa è stata costretta a sposarsi a quell’età. L’unico a non accettare quest’ordine sociale, che sembra lasciato al caos ma che invece segue delle precise regole patriarcali, è Zain, che possiede un suo personale codice etico. Pur consapevole che la legge vigente non sarà mai “giusta”, matura la paradossale decisione di fare causa ai genitori, per la semplice ragione di averlo messo al mondo.
Un film che ha l’intensità di un melodramma e lo stile del cinéma vérité che ricorda quello dei fratelli Dardenne, soprattutto per quel delicato pedinamento del protagonista, di matrice zavattiniana. Ma Labaki pur ispirandosi a questi autori è capace di creare qualcosa di fresco ed attuale. Ciò è stato possibile grazie al lungo lavoro di preparazione che ha preceduto le riprese (sopralluoghi, interviste etc) e alla presenza dello straordinario Zain Al Rafeea, un ragazzino siriano, senza documenti, che la regista ha scovato dopo numerosi provini. [21]
Proseguiamo il diario di bordo con uno dei rari film italiani degni di essere ricordati (considerando Les Estivants francese), ossia Il Traditore di Marco Bellocchio. Rientrando da Cannes senza premio alcuno (dopo avervi partecipato per nove volte volta ed essere stato divisivo in almeno due occasioni: “L’ora di religione” e “Vincere”), Marco Bellocchio offre il suo stratificato, complesso “Traditore” ad un’ampia variabile di approvazioni, entusiasmi o dissensi radicali, ai quali tenteremo di non aggregarci proprio in ragione della prismaticità di un’opera non valutabile con unità di misure manichee o per ‘comodità’ di generi (filmici).
Si inizia, come è normale che sia, dall’esposizione (cronistica, calendarizzata) dei fatti. Ai quali “occorrono” circa due ore e mezzo (troppe) per dispiegarsi (mediante personaggi a ‘funzione narrativa’): “ evocare una pagina della storia d’Italia, quella che nel corso degli anni Ottanta vede scoppiare una violenta guerra di mafia per il controllo internazionale del traffico di droga”, annota lo stesso Bellocchio, come se avesse scelto (ma non è vero) di rendere omaggio al vecchio cinema di impegno civile.
Restiamo ai concatenati accadimenti (e alla loro parabola): dal Brasile dove vive gestendo un ‘fiorente’ traffico di droga, Tommaso Buscetta assiste impotente all’uccisione, a Palermo, del fratello e di due suoi figli. Braccato e posto agli arresti dalla polizia di San Paolo, il futuro “boss dei due mondi” viene estradato in Italia, ove decide di incontrare il giudice Giovanni Falcone e di ribellarsi di fatto (dopo i tanti lutti che hanno ammorbato la sua stirpe) alla “degenerazione” di Cosa Nostra – rispetto agli arcaici valori della mafia contadina – diventando con orgoglio guascone il primo, grande pentito di mafia e il più ‘autorevole’ accusatore dei suoi ex sodali.
Nasce così, e per grandi linee (fra massacri e vendette trasversali), quel che venne nominato Maxiprocesso, che vide imputate 475 persone e che, dopo l’attentato a Falcone e alla sua scorta, perpetrato da Totò Riina, spinse Buscetta a coinvolgere ‘intoccabili’ nomi della politica italiana (Giulio Andreotti, il primo), senza però che la sua “influenza” (la morte se lo portò nella primavera del 2000 “nel mio letto”, come desiderava) potesse avere alcuna opportunità di “dire la sua” in quel che poi sarebbe stato quel supplemento di indagini, tossicità, concreti indizi fascicolati nel turpe capitolo della trattativa Stato-Mafia.
Fin qui, e per sommi capi, il nucleo del racconto (donde diramano tracce di esecuzioni sommarie, agguati, rese di conti e reazioni a catena): cupo, asciutto, perennemente immerso in quell’emisfero di dormiveglia onirico, di sequenze lievemente sfocate, che sono cifra stilistica del cinema di Bellocchio. Anche nelle sue (presunte) escursioni nel cinema “non strettamente” (auto) analitico, personale, notomizzante traumi e disagi di una condizione che è comunque di sofferta (insofferente) sudditanza: sia nei confronti della Famiglia, sia dello Stato, e di qualsiasi altro ambiente ove si abbatte la spada di Damocle delle Istituzioni: mai neutre, neutrali, al di sopra della parti. Sempre consustanziali (finto rassicuranti) all’esercizio del o dei Poteri, ovunque mistificano e si nascondono.
E quindi, una domanda quasi superflua: come puoi non “odiare” la Mafia se hai a suo tempo (da “I pugni in tasca in poi”) “odiato” ogni nucleo e universo concentrazionario in cui la sopraffazione di annida? Che differenza (sostanziale) passa dalla Piccola Famiglia Perbene di Piacenza alla Grande Famiglia Virulenta agli effimeri Troni di Sangue, annidati e avvicendati da Cosa Nostra?
Questo il punto. Nonostante il realismo, il proscenio, le maschere urticanti del teatro delle apparenze (Palermo, la Sicilia, i suoi ‘onorati’ criminali), quello di Bellocchio è, in primo luogo, un apologo nero, nichilista, totalizzante (quindi, per chi lo ritiene, opinabile, e da cui prendere le distanze): di una condizione umana dissipata sulla galassia epilettica della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, dell’ignoranza e della paura asservite alla demagogia e ai dogmi dei Padri. Sotto le mentite spoglie del film di indagine antropologica e di costume, Il traditore rappresenta il requiem, il paradigma e apologo di un Occidente ormai condannato all’irreversibilità dell’imbestialimento primordiale e della morte di ogni residua speranza, in senso etico e ontologico. Finale di partita e resa dei conti come pietrificazione del post-esistente. Se ne parlerà, forse, in altra era geologica. Resta semmai da “confutare” la superficie realista (crudo realismo) di un racconto affastellato ed ellittico, difficile da decifrare nei suoi meandri dai non specialisti del settore (giornalistico, sociologico e quant’altro).
Poiché la disarmata “naturalezza” con cui Bellocchio impressiona e lascia susseguire i suoi ‘fatti e misfatti’ non ha nulla in comune con quanto la tradizione del cinema italiano imprime al piacere\dovere dell’indagine requisitoria, disvelatrice, accusatrice (da Francesco Rosi a Damiano Damiani, da Carlo Lizzani a Giuseppe Ferrara). Elevandosi – la riluttanza dell’autore – a tutta quella varietà (universale) di “convivenze forzate e ineludibili” in cui non la mafia, ma la sua mentalità (di cui la Sicilia è solo il bubbone incistato, inasportabile, di proscenio) spadroneggiano e decretano sin dalla notte dei tempi. In attesa (ingenua?) che l’inverarsi d’una qualche palingenesi (rossa, messianica, buddista, confuciana…) riscatti dalla servitù l’ uomo in rivolta o il suo impresentabile opposto: il popolo bue.
Ps dal “naturalismo” sghembo e ‘dissacrante’ di Bellocchio, dal suo Leviatano mai saziabile si staccano almeno due sequenze di svagata ironia: quando Buscetta (Pierfrancesco Favino in difficile equilibrio fra mimesi ed istrionismo), dopo il colloquio con Falcone (il sobrio e dolente Russo Alesi), percorre…in bicicletta…aule e corridoi del Palazzo di giustizia (e dei “veleni”) di Palermo; e quando, tutto ad un tratto, all’interno di un’elegante sartoria appare, smunto e fantasmatico, un ‘canuto’ Giulio Andretti, che Pippo Di Marca, maestro di regia nell’ambito delle avanguardie, interpreta dimesso e pernicioso, senza profferir parola, immoto nello sguardo e frenetico nel memorizzare appunti scritti – difeso dal celebre avv. Coppi (badiale e facondo, secondo Bebo Storti) – nel corso delle udienze dibattimentali, dialogate, come tutto il film, in strettissima lingua palermitana, ma con sottotitoli – ed il solo precedente de “La terra trema” di Visconti.
Ma lì a dialogare, patire, interagire nella “sventura” erano i ‘vinti’ pescatori di Trezza. [22]
La stagione si chiude in questi giorni con tre film ‘da festival’ di grande interesse. The Dead don’t Die di Jim Jarmusch, evento di apertura di Cannes 2019, La Quietud di Pablo Trapero, Mostra di Venezia 2018, e Carmen y Lola di Arantxa Echevarría, Cannes 2018.
Le lapidi inclinate del cimitero danno la sensazione di essere state disegnate a china, facendo slittare The dead don’t die fin dalle immagini iniziali verso la graphic-novel più sofisticata e avvincente. Ci troviamo nella cittadina di Centerville, a very nice place, dove le parole, le frasi, ricorrono nelle conversazioni come il tema musicale di una ballata d’altri tempi. Spesso ripetute da personaggi diversi, servono a riempire il tempo dilatato e stagnante proprio dei luoghi marginali e dimenticati. Tutti si conoscono e si muovono fra i punti di riferimento cruciali di ogni storia di genere (o di generi): il bosco, regno di Eremita Bob (Tom Waits), riottoso e sarcastico riciclatore di scarti entropici e occasionale ladro di polli, il diner vintage con le brocche di caffè sui fornelli gestito da Fern e Lily, il motel, il carcere minorile, l’emporio/distributore di benzina sul quale si stende una luce hopperiana e liminale che però assume una declinazione fumettistica o leggiadramente kinghiana. E ancora, la centrale di polizia in cui Cliff, Ronald e Mindy (Bill Murray, Adam Driver e Chloë Sevigny) nelle triangolazioni dialogiche si scambiano laconiche, ellittiche allusioni. Sevigny si ritaglia uno spazio di particolare intensità, instillando nel personaggio di Mindy una realistica, umana angoscia, attraverso minime variazioni progressive da grande attrice.
La nuova titolare delle pompe funebri, Zelda Winston, scozzese dall’impeccabile accento Oxbridge, suscita una sonnolenta inquietudine negli abitanti. Capelli bianchi lisci e sguardo che attraversa l’interlocutore, si muove con incuriosita noncuranza fra la vita e la morte, camminando con improvvisi cambiamenti di direzione ad angolo retto e truccando i defunti secondo un’estetica da musical transgender anni ’80. Ha arredato una grande sala presente nell’edificio in modo da ricreare l’essenzialità di un tempio giapponese, e nei momenti liberi rende omaggio a un Buddha dorato tracciando nell’aria, con lentezza e precisione, le linee dell’arte della katana praticata dai samurai. La disciplina mentale e fisica che sta all’origine di ogni gesto plasma una danza stilizzata, rituale, nella quale Tilda Swinton dà un ennesimo saggio della sua originalità performativa.
Radio e tv, le cui trasmissioni sono sempre più disturbate da interferenze magnetiche (le stesse che bloccano cellulari e orologi), riferiscono di strani fenomeni in-naturali attribuiti al fracking dei poli appena attuato dalle compagnie petrolifere americane, e nello stesso tempo riportano le dichiarazioni arroganti delle ‘autorità’ e degli stessi petrolieri: l’operazione non comporta rischi ed è necessaria all’approvvigionamento energetico e alla creazione di nuovi posti di lavoro. Fracking è l’abbreviazione di ‘hydraulic fracturing’, una tecnica per estrarre gas non convenzionale che consiste nel frantumare la roccia (in questo caso il ghiaccio) usando fluidi saturi di sostanze chimiche iniettati nel sottosuolo ad alta pressione. Inventata nel 1947 e praticata diffusamente dal 1997, è stata esentata nel 2005 dall’osservanza delle leggi di protezione ambientale per iniziativa del duo Bush-Cheney.
Questi fenomeni, causati dall’alterazione del moto dell’asse terrestre scatenata dal fracking, investono all’improvviso anche Centerville. Il rapporto fra le ore diurne e quelle notturne si fa ondivago, gli animali si nascondono e diventano aggressivi o scappano nei boschi, gli uccelli scompaiono. Una luna verdastra alonata di vibrazioni viola ri-anima i morti, in realtà morti già in vita e per questo incapaci di trovare una via di fuga dalla dimensione immanente e materialista del consumo, della coazione a riprodurre, all’infinito, come macchine celibi e ridicolmente perverse, le ossessioni da cui erano sopraffatti in vita. Cercano cellulari e game boy, chardonnay e caffè, accessori fashion di cattivo gusto e giocattoli, e si nutrono di altri esseri umani con una voracità fuori tempo massimo. Le sequenze delle aggressioni sono acide e spesso esilaranti, eppure lasciano una scia di amarezza profonda. Jarmusch con un tono leggero e mimetico che divaga fra horror, apologo ecologista e fantascienza (ebbene sì, ci sono anche gli Alieni), sostenuto dal montaggio di Affonso Gonçalves, firma la sua opera più disperata. Una disperazione senza sgomento, quasi una constatazione arresa e nostalgica che si lascia trasportare, simile a una foglia, dalle note della canzone The Dead don’t Die di Sturgill Simpson. [23]
La Quietud è il nome di una tenuta immersa nel verde in Argentina, la cui proprietà è passata, in circostanze non del tutto limpide, da una coppia arrestata per l’opposizione alla dittatura a un diplomatico connivente con il regime. Da qui il titolo originale del film che Trapero ha portato alla 75° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e che in Italia esce come Il segreto di una famiglia, titolo troppo astratto per rendere il clima profondamente fisico del film, che dietro la “quiete” apparente cela un groviglio emotivo pronto a deflagrare. Trapero raccconta una storia sempre sospesa tra la scarsa credibilità dei triangoli da telenovela e il compito delicatissimo di addentrarsi con sguardo comprensivo e non giudicante nelle pieghe dei rapporti familiari, che possono celare grandi sofferenze e sottoporre a costrizioni e violenze indicibili. L’interesse del regista argentino per i clan non pare affatto esaurito dopo l’omonimo film che lo portò a ricevere un Leone d’argento nel 2015.
In una delle primissime scene la macchina da presa fa inaspettatamente irruzione nel letto delle due sorelle (Bérénice Bejo e Martina Gusman), appena ritrovate per la malattia del padre, tra mani che scivolano e parole sussurrate, che rievocano le loro prime eccitazioni condivise da bambine. Trapero ci cala subito in una dimensione conturbante e in un legame profondo, avvolgente, vischioso, che lascia presagire più ombra che luce.
Le donne di famiglia (le sorella Mia ed Eugene e la madre Esmeralda) tornano tutte e tre sotto lo stesso tetto quando il pater familias viene colto da malore mentre sta rendendo dichiarazioni spontanee sull’oscura vicenda dell’acquisto di quella meravigliosa, sconfinata tenuta, che tanta parte svolge nel film specie come set dell’azione. E’ per rendere visita al padre in fin di vita che la primogenita Eugene torna da Parigi, dove vive col marito, ed è questa improvvisa convivenza a tre che provoca l’incrinarsi progressivo di tutta l’impalcatura che regge gli equilibri familiari. Ogni occasione è buona per mostrare la tensione tra Mia, la sorella minore tornata coi genitori in Argentina dopo la forzata permanenza in Francia, e la madre (la bravissima Graciela Borges, eccessiva e perfetta nel ruolo smaccatamente tragico), che nutre una predilezione esplicita per la figlia maggiore Eugene.
Entrambe bellissime, molto complici, unite da forti sentimenti di amore e di riconoscenza reciproca, ma anche da non detti insidiosi, non ultima la condivisione dell’amore per lo stesso uomo. La differenza tra amore passionale e amore razionalmente scelto, il tentativo di ripararsi reciprocamente dal dolore, un rapporto troppo e drammaticamente diverso con la propria madre, sono aperture profonde al femminile, fino a toccare in modo tangibile la forza ambivalente della sorellanza, che sfiora l’incesto; sembra di sentir respirare quei legami malati (e fatalmente iniqui) nelle stanze lussuose e nel verde rigoglioso e curatissimo intorno alla villa. Ma la cura che la madre riserva alle rose del giardino e non a quanto dice sua figlia Mia suona stridente e ci prepara alla confessione, centrale nel film, riguardo alla sua difficoltà emotiva con la figlia minore (e con l’apparentemente amatissimo marito). Intanto la telecamera indugia piacevolmente su paesaggi e dettagli naturalistici della hacienda che contribuiscono a rendere caldo e esteticamente apprezzabile il film. Il cancello con la scritta “Quietud” che si apre e chiude a inizio e fine film, in momenti diversi della giornata, dove il sole colora in modo diverso la tenuta, rende inesorabili ma non immutabili gli orizzonti dei rapporti familiari.
La colonna sonora resta attaccata alla pelle, con il continuo affiorare del brano della cantautrice cilena Mon Laferte Amor completo, definito con aggettivi come “inquieto” e “drogado” che lo fanno sentire, appunto, talmente imprescindibile da poterne morire soffocati.
Non sono banali i tentativi di abbozzare la complessità dei sentimenti materni, di quello che scatta interiormente ed esteriormente (nel contesto sociale e collettivo in cui la futura madre è inserita) quando comincia una gravidanza, cui le interpreti sanno dare spessore. E’ un film sorgivamente latino ed eccessivo, iperbolico anche nel sovraccaricarsi di tematiche e di incroci narrativi, di metafore non tutte riuscitissime, specialmente nel parallelismo tra dimensione intima e dimensione politica, ma che prova a mettere al centro la dimensione corporea dell’emotività e degli impulsi affettivi, non sempre esclusivi dell’ambito di coppia.
Il finale è forse la parte meno convincente della narrazione, appena abbozzata e ammiccante a tematiche sociali, come la fecondazione assistita, foriere di interrogativi troppo complessi per restare così sfocate sullo sfondo. [24]
“Sei una cazzo di lesbica, vero?”
La vita è un abito da sposa triste. La vita è una ragazza agghindata, seduta sul bordo del letto, con lo sguardo vuoto. La sua vita è solo l’attesa di un futuro che altri hanno deciso. L’immagine iniziale di Carmen y Lola, esordio delicato e tenero della regista Arantxa Echevarría (che è anche sceneggiatrice), e che ha già vinto i Premi Goya per il “Miglior esordio” e per la “Miglior attrice non protagonista” (Carolina Yuste) è decisiva poiché circoscrive i confini di una situazione femminile doppiamente subalterna – lesbica e rom – da cui non è pensabile sottrarsi.
Il film di Arantxa Echevarría racconta la storia vera – il riferimento è alla prima coppia di donne gitane sposate in Spagna nel 2009 – di un affrancamento non solo sessuale, ma dell’affermazione di una identità al di là di regole e convenzioni sociali. Per questo il suo obiettivo si sofferma essenzialmente sulle due protagoniste lasciando comunque intuire il contesto rom che le circonda, senza gli stereotipi che spesso l’hanno cinematograficamente accompagnato.
La vita delle adolescenti Carmen e Lola, appare improntata a regole che paiono immutabili: casa, lavoro, matrimonio. Una emarginazione che è anche fisica e geografica: un quartiere madrileno per ex sfrattati, l’UVA di Hortaleza, un mondo piccolo quasi pre-capitalistico, in cui tirare a campare. E’ qui che le due protagoniste intrecciano le loro vite, il cui prestigio sarà possibile solo in riferimento alla funzione di future mogli e madri: “Noi ragazze gitane – dice infatti Lola – non possiamo nemmeno avere sogni”.
Carmen (Rosy Rodríguez) ha solo due cose in testa: sposare Rafa e diventare parrucchiera. Non ha mai visto il mare e non sa nemmeno nuotare. Accetta la sua condizione come naturale e il futuro che le regole della comunità le impongono come scontato. Insomma è una che si fa le illusioni giuste: quelle consentite. Il rigido controllo della loro sessualità, esercitato da una serie di istituzioni sociali – l’importanza della verginità e la segregazione che ne consegue – diventa infatti il fattore decisivo della reputazione maschile e del dominio che su di loro accampa.
Lola (Zaira Morales) invece è una lesbica, una “mangiapatate”, studia – vorrebbe addirittura fare l’insegnante – è una writer creativa, sgobba nella bancarella di frutta a gestione familiare, all’interno di un contesto relazionale – i due genitori sono analfabeti – dominato dal padre, per il quale il lavoro è tutto. E quando Lola pare rivendicare le proprie aspirazioni è la madre a liquidarle con un perentorio “sempre a parlare di scuola, di libri, ma mai di ragazzi (rigorosamente gitani, n.d.r.) e di matrimonio”. Innamorarsi di Carmen – che all’inizio la rifiuta sconcertata – per lei è assolutamente naturale: in fondo Lola rivendica solo una vita normale, una vita “senza doversi nascondere”.
Poi c’è quel bacio, che scioglie poco a poco Carmen, la toccante (e simbolica) scena nella piscina vuota nella quale Lola insegna a Carmen a nuotare, gli incontri, i silenzi dell’una e le lunghe attese dell’altra, Rafa che sospetta altri uomini, la scandalosa rottura del fidanzamento, la scoperta della relazione, lo scandalo all’interno della comunità e la conseguente accusa di “condotta innaturale”: a Lola e Carmen non resta che la fuga dentro un bus che attraversa la notte fino all’alba e – in una sequenza che evoca quella finale de “I quattrocento colpi”- fino al tanto desiderato mare. [25]
[1] I ruoli che imprigionano di Lucia Tempestini 31-01-2019
[2] Il peso dell’Invisibile di Lucia Tempestini 03-01-2019
[3] Vivere solo nei falsi di altre vite di Giuseppe Condorelli 20-04-2019
[4] Il realismo utopico dell’eroina islandese di Lisa Tropea 17-01-2019
[5] Ritratto incompleto di una scrittrice di Simona Almerini 09-02-2019
[6] L’ombra molesta dei padri di Lucia Tempestini 29-10-2018
[7] Lisbeth e la sua Ombra di Lucia Tempestini 03-11-2018
[8] Lo scontro eterno fra grettezza e utopia di Lucia Tempestini 04-10-2018
[9] Il viaggio a ritroso del giudice Maye di Lucia Tempestini 20-10-2018
[10] Un drammatico ‘fuori orario’ di Lucia Tempestini 26-12-2018
[11] Immersione sacrale in un altro Io di Agata Motta 06-03-2019
[12] Un sogno senza età di Raffaella De Biasi 03-04-2019
[13] Le smanie della villeggiatura sulla Costa Azzurra di Anna Di Mauro 11-03-2019
[14] Discussioni salottiere a margine dell’e-book di Simona Almerini 03-01-2019
[15] Impedimenti del corpo e ‘deseo’ creativo di Agata Motta 30-05-2019
[16] Fino alla fine. L’amore al tempo di “Cold war” di Pawel Pawlikowski di Giuseppe Condorelli 18-04-2019
[17] L’Envol, centro di assistenza sovversivo di Sergio Cervini 22-04-2019
[18] La fiaba cruda e gentile di Denys Arcand di Lucia Tempestini 28-04-2019
[19] Le forze della repressione a nudo di Giuseppe Condorelli 27-05-2019
[20] Quando lo Stato ti divora di Sergio Cervini & Lucia Tempestini 02-12-2018
[21] Ribellione alle regole patriarcali di Simona Almerini 21-03-2019
[22] Il traditore con i pugni in tasca di Angelo Pizzuto 06-06-2019
[23] A very nice place with zombies di Lucia Tempestini 16-06-2019
[24] Della quiete che manca in famiglia: il viaggio di Trapero dentro le geometrie relazionali di Lisa Tropea 27-06-2019
[25] Verso il mare, dalla notte all’alba di Giuseppe Condorelli 29-06-2019
E ora, il consueto ‘lasciateci divertire’ dei due curatori…
Lista ‘i migliori’ secondo Lucia Tempestini
[box] STAGIONE CINEMA 2018-19
MIGLIOR FILM a La Favorita di Yorgos Lanthimos e alle tre protagoniste Olivia Colman, Emma Stone e Rachel Weisz
MIGLIORE REGIA Marielle Heller (Can You Ever Forgive Me?)
GRAN PREMIO DELLA STAGIONE Le invisibili di Louis-Julien Petit e La caduta dell’impero americano di Denys Arcand
PREMIO SPECIALE Emma Thompson (The Children Act di Richard Eyre) e Melissa McCarthy (Can You Ever Forgive Me? di Marielle Heller)
MIGLIORE SCENEGGIATURA or. Wash Westmoreland, Richard Glatzer e Rebecca Lenkiewicz (Colette)
MIGLIORE SCENEGGIATURA non or. Nicole Holofcener e Jeff Whitty (Can You Ever Forgive Me? di Marielle Heller)
MIGLIOR COMMEDIA Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi
MIGLIOR DOCUMENTARIO Karenina & I di Tommaso Mottola
MIGLIOR SOGGETTO Naomi Alderman (Disobedience di Sebastiàn Lelio)
MIGLIOR FOTOGRAFIA Sayombhu Mukdeeprom (Suspiria)
MIGLIORI SCENOGRAFIE Inbal Weinberg (Suspiria)
MIGLIORI COSTUMI Andreas Flesch (Colette di Wash Westmoreland)
MIGLIOR MONTAGGIO Affonso Gonçalves (The Dead don’t Die di Jim Jarmusch)
MIGLIOR SEQUENZA “Goodnight ladies” di Lou Reed nella versione transgender di Justin Vivian Bond (Can You Ever Forgive Me?)
MIGLIOR COLONNA SONORA La Favorita
MIGLIOR CANZONE Marvin Gaye eseguita da Charlie Puth e Meghan Trainor (Book Club di Bill Holderman)
MIGLIORI EFFETTI VISIVI Michael Fontaine, Johann Kunz, Alex Hansson, Sam O’Hare (The Dead don’t Die)
MIGLIOR MAKEUP & HAIRSTYLING Nadia Stacey (La Favorita)
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA Tilda Swinton (Suspiria di Luca Guadagnino)
MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA Alessandro Borghi (Sulla mia pelle di Alessio Cremonini)
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA Patricia Clarkson (La Casa dei Libri di Isabel Coixet)
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA Bill Nighy (La Casa dei Libri)
MIGLIOR ESORDIENTE Honor Kneafsey (La Casa dei Libri)
MENZIONE SPECIALE Julia Roberts e Lucas Hedges (Ben is Back)
MENZIONE SPECIALE Dolly Wells (Can You Ever Forgive Me?)[/box]
Lista ‘i migliori’ secondo Sergio Cervini
[box] STAGIONE CINEMA 2018-19
MIGLIOR FILM Suspiria di Luca Guadagnino
MIGLIORE REGIA Pedro Almodòvar (Dolor y Gloria)
GRAN PREMIO DELLA STAGIONE Tilda Swinton (Suspiria)
PREMIO SPECIALE Lucas Hedges (Ben is Back di Peter Hedges)
MIGLIORE SCENEGGIATURA or. Alessio Cremonini e Lisa Nur Sultan (Sulla mia pelle di Alessio Cremonini)
MIGLIORE SCENEGGIATURA non or. Ian McEwan (The Children Act di Richard Eyre)
MIGLIOR COMMEDIA Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi
MIGLIOR DOCUMENTARIO ——-
MIGLIOR SOGGETTO Lee Israel (Can You Ever Forgive Me? di Marielle Heller)
MIGLIOR FOTOGRAFIA Sayombhu Mukdeeprom (Suspiria)
MIGLIORI SCENOGRAFIE Stephen H. Carter (Can You Ever Forgive Me?)
MIGLIORI COSTUMI Caroline De Vivaise (Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi)
MIGLIOR MONTAGGIO Arthur Tarnowski (La caduta dell’impero americano)
MIGLIOR SEQUENZA Holly Burns e il figlio Ben al cimitero (Ben is back di Peter Hedges)
MIGLIOR COLONNA SONORA Les Estivants
MIGLIOR CANZONE Marvin Gaye eseguita da Charlie Puth e Meghan Trainor (Book Club di Bill Holderman)
MIGLIORI EFFETTI VISIVI Dean Hathaway (La Llorona di Michael Chaves)
MIGLIOR MAKEUP & HAIRSTYLING Lorenzo Tamburini (Suspiria)
MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA Judi Dench (Red Joan di Trevor Nunn)
MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA Alessandro Borghi (Sulla mia pelle di Alessio Cremonini)
MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA Angela Winkler (Suspiria)
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA Bill Nighy (La Casa dei Libri)
MIGLIOR ESORDIENTE Zain Al Rafeea (Cafarnao di Nadine Labaki)
MENZIONE SPECIALE Milvia Marigliano (Sulla mia pelle di Alessio Cremonini)
MENZIONE SPECIALE Julia Roberts (Ben is Back)
MENZIONE SPECIALE Noémie Lvovsky (Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi)
MENZIONE SPECIALE Cole Sprouse (A un metro da te di Justin Baldoni)[/box]
Visto che siamo democratici (ma non troppo), aggiungiamo i pareri degli altri
Simona Almerini
Miglior film La Favorita di Yorgos Lanthimos
Migliore regia Yorgos Lanthimos (La Favorita)
Giuseppe Condorelli
Miglior film La Favorita di Yorgos Lanthimos
Migliore regia Pawel Pawlikowski (Cold War)
Raffaella De Biasi
Miglior film Green Book di Peter Farrelly
Migliore regia Tim Burton (Dumbo)
Anna Di Mauro
Miglior film La Favorita di Yorgos Lanthimos
Migliore regia Marco Bellocchio (Il Traditore)
Per concludere in leggerezza, la canzone votata da entrambi